La prima generazione di artisti nativi digitali ha oggi fra i trenta e i quarant’anni ed è difficile che non si siano serviti del mezzo digitale almeno per qualche parte del loro lavoro, fosse anche la sola fotografia. Tutti viviamo questo nostro tempo che ci propina quantità inverosimili d’immagini, tutte digitali. Effetti speciali nel cinema, nella televisione e perfino nel video casereccio che si posta su Instagram ci hanno resa familiare una realtà a sé stante che non necessariamente corrisponde all’oggettività che tocchiamo e calpestiamo ogni giorno. Quel che vediamo, salvo in casi di documentazione formale, non dev’essere per forza vero e nemmeno verosimile, basta che si veda. Nessuno si sente truffato da questo e non ne avrebbe proprio motivo. È un nuovo patto sociale e comunicativo.
A mio parere ciò suppone un progresso notevole nella fruizione dell’arte. All’inizio del Novecento si fece a meno dell’accademia in nome della libertà, col risultato che la produzione artista si moltiplicò esponenzialmente in numero, varietà e creatività. Ora si sono aperti scenari nuovi che vent’anni fa erano non solo impossibili ma impensabili. «L’importante è la postproduzione!», mi diceva un famoso fotografo. Ecco la novità.
Bartolomeo Pietromarchi ha riunito al MAXXI, in una mostra di raro acume intitolata Low Form, diciotto tra gli artisti più affermati del mondo nell’arte digitale, quasi tutti nati negli anni Ottanta. Non fanno però, come il mio fotografo, solo postproduzione ma vera produzione da computer, opere create da loro ma sviluppate da processi informatici ad alta complessità, qualcosa di molto vicino all’intelligenza artificiale. Molti di noi, quando sentiamo di reti neurali, deep web, realtà aumentata, algoritmi, biologia sintetica o nanotecnologia… si sentiamo persi, anzi annientati. Ma, che lo capiamo o no, le macchine oggi possono creare mondi paralleli in larga parte autogenerati. Si pensi ai più evoluti videogiochi. È proprio un motore di videogioco che utilizza il newyorkese Ian Cheng per creare la trilogia d’inquietanti video (se si può usare ancora questo termine) nei quali una miriade di omini lotta con degli strani elementi che vorrebbero eliminarli. Questi ominoidi sono toccanti nella loro lirica deformità e nell’impossibilità di opporsi liberamente al destino. No, non è un video, è un mondo che vive da solo. Similmente il canadese Jon Rafman propone sullo schermo un alternarsi di collage (dove si mescolano le immagini più disparate, come accade in una passeggiata nel web) e brani di animazione, per dirlo ancora con una parola inappropriata, che osservano un’umanità travolta da enormi assi o spiaccicata contro un muro alla fine di una corsa senza senso.
La polacca Agnieszka Polska, altra celebrità mondiale nella sua giovane età, presenta l’opera forse più poetica e coinvolgente: un sole con due occhioni da bambino che riflette e canta sottovoce. Bellissima. Trevor Paglen fa delle fotografie non già ritoccate ma totalmente ripensate dalla mente informatica, che genera corpi e visioni inedite.
Altre opere sono, per così dire, più familiari, come il paesaggio della nostra Carola Bonfili da guardarsi col casco della realtà virtuale. Oppure la pittrice Jamian Juliano-Villani, di New York, che dipinge quadri ad acrilico ispirati all’immaginario del web. Non sono sicuro che la tecnica sia ancora quella tradizionale, vista la strabiliante perfezione dell’immagine (la brutta installazione che ci ha messo intorno si può dimenticare facilmente). In altri casi il prodotto informatico non è immagine sullo schermo ma vero modellato di materiali, come quelli indecifrabili del duo lituano Pakui Hardware. Sarebbe prolisso continuare a descrivere, ma in mostra non c’è niente di meno interessante.
L’evento vuole essere occasione di riflessione su questa nuova deriva estetica, e a questo scopo è accompagnata da una ricca pubblicazione, ben più del consueto catalogo, da una serie d’incontri con esperti tra cui lo stesso artista Jon Rafman, e da proiezione di film su opere non presenti. Certo alcune domande si pongono inevitabilmente, ed è lo stesso Pietromarchi a farsele. Prima: sarà mai possibile che l’intelligenza artificiale prenda il posto dell’artista e produca autonomamente della vera arte? Allo stato attuale ha a suo carico una parte, anche grossa, del processo, ma l’idea e la responsabilità è ancora dell’artista. E l’artista è, per ora, una delle poche figure umane che la tecnica non riesce a sostituire.
La seconda domanda è posta su un piano puramente estetico. Un fruitore che visita una mostra del genere e che non è interessato a conoscere il «dietro alle quinte», come prima non gli importava di che tipo di pigmenti usava una volta il pittore, che cosa vede? Certamente l’apertura di nuove, inesplorate possibilità di espressione; e bisogna essere proprio chiusi di mente per non entusiasmarsi di una tale prospettiva. Se Michelangelo avesse avuto i moderni sistemi ingegneristici coi relativi calcoli informatici, avrebbe progettato la stessa Cupola di San Pietro? Se avesse avuto un elaboratore come i nostri, avrebbe dipinto lo stesso Giudizio Finale? Per non dire di Leonardo, tanto portato all’invenzione e alla sperimentazioni di cose mai viste. Ecco, la Polska parla spesso della responsabilità dell’artista, incredibilmente accresciuta nei nostri tempi. Le possibilità apertesi sono tanto vaste e nuove da essere ancora inesplorate, come gli oceani.
Inesplorate. Perché in queste rassegne (che certo riempiono di stupore e di gioia) non si vede ancora il veramente nuovo, radicalmente nuovo. Il collage, l’animazione, la pittura, la visione di un paesaggio per quando virtuale, la scultura… sono cose classiche. Legittimo, per carità, continuare a fare dei collage anche su base informatica, ma rientra nel quadro del noto. E così gli altri settori. Sembra come se si stesse aspettando ancora il genio che con questi mezzi produca un qualcosa di stupefacente. Un genio che, forse, avrebbe solo bisogno di trovate semplici ma diverse, alla Duchamp.
La terza considerazione riguarda non solo l’arte digitale ma una grossa parte dell’arte contemporanea degli ultimissimi anni. Prevale una visione apocalittica, drammatica, la percezione che il nostro mondo vada verso il precipizio, l’angoscia, la deformazione. Non è più l’immondo che denunciava Jean Clair né il trionfo del banale o dell’ironia come in tempi recenti: è proprio paura. Eppure non si può dar torto del tutto a questi giovani: da artisti, hanno le antenne sensibili e percepiscono ciò che tanti vogliono ignorare. Diverso è che oggi molta critica, e per contagio anche gli artisti, usi troppo spesso termini come filosofia, esplorazione, indagine, ecc. L’arte è, o dovrebbe essere, più semplice e perciò più profonda.
Michele Dolz