Works

VIA CRUCIS

L'estate 2020 un amico poeta, Massimo Bettetini, mi inviò la bozza del suo poema sulla Via Crucis intitolato "Nuda parola che salva", che sarebbe stato pubblicato da Internlinea, e mi chiese di fargli le tavole. Fui molto reticente, perché il sacro non l'ho mai voluto fare: ci hanno precedito artisti troppo grandi e artisti troppo piccoli lo hanno banalizzato nei nostri tempi. Ma alla fine si accese una piccola luce. Ho studiato molto la "imagineria" spagnola, sviluppatasi principalmente nel Seicento e poi imitata fino ad oggi. Presi frammenti di quelle immagini (con qualche eccezione a tono), le "bruciai" con Photoshop e poi le aggredii con pigmenti. Per vie un po' misteriose, come sempre, avevo raffigurato quel vedere e non vedere della fede e avevo inflitto alle figure segni di dolore.Il libro fu pubblicato nel febbrario 2021 e le tavole esposte nella Basilica di Santa Maria dei Miracoli a Milano tra febbraio e aprile dello stesso anno.

UMANITA' SENZA NOME. CAPITOLO 2

Presentata da Gian Maria TosattiGian Maria TosattiL’ODORE DELLA PITTURAUna lettura dell’opera di Michele DolzSe ricordo bene, la prima volta che mi sono imbattuto nella pittura di Michele Dolz è stato rispetto ad alcuni suoi lavori che avevano al centro delle foglie, ammassate a terra, presumibilmente in un bosco, ai piedi di alberi che, però non si vedevano. C’erano solo le foglie. Molte, indistinguibili l’una dall’altra. La sua pittura mi colpì per uno stralunato e paradossale realismo. Le foglie erano lì, la figurazione era abbastanza classica, eppure, sembrava che il soggetto del quadro fosse un altro, nascosto, lontano da lì, perso nella memoria o nel mondo. Quel quadrato di foglie era solo una traccia, come quella su cui si sofferma un segugio per poter provare a individuare una nota olfattiva che possa portarlo, appunto, su una strada da seguire.Che odore si sente allora in quei dipinti? Ecco, forse è questa la domanda giusta. È attraverso questo altro senso, che si riesce a vedere la pittura di Michele Dolz. Che si riesce a farsi portare da essa fin dove si nasconde l’immagine che non si mostra.Ho continuato, poi, a seguire i suoi progetti. Ancora boschi, paesaggi, distese di terra che si gonfia come pane contro il cielo. Tutti sipari di un altrove che doveva essere raggiunto, seguendo un odore, qualcosa che nell’opera mostrava solo un indizio.Così ho iniziato a capire che l’opera di Michele Dolz non si situava nel confine squadrato della tela, ma risiedeva, appunto, in quel percorso da fare. Ho camminato per molti chilometri, ho preso treni, mi sono riposato sui lungolago svizzeri e poi ho ripreso il viaggio, partendo da quei dipinti. Dove sono arrivato?A volte mi sono perso. Ma non importa. Altre volte sono arrivato dove non credevo di dover andare.Gino De Dominicis scherzava seriamente quando diceva che è lo spettatore che si espone al quadro. Ed è, appunto, così che funziona con la pittura di Dolz. Non c’è niente da vedere. Niente da cercare, da capire. Bisogna solo star lì. Per un po’. Ad osservare oltre la superficie. Come quando, nei pomeriggi dell’infanzia, si aspettava che passasse un certo limite di tempo determinato, avendo esaurito ogni fantasia, e si restava a guardare attraverso il vetro della finestra, la pioggia.Sono quelle le immagini che mi sono rimaste più impresse di quegli anni.Perché lì, in quel vetro bagnato che sfocava i contorni di tutto, c’era la cognizione dell’esserci, malgrado tutto il resto, l’infinita mole dell’universo, che sta seduto su di noi, come un elefante su una colonia di batteri. Eppure, ogni singolo batterio, è lì che si perde nei pensieri, nelle percezioni. Non è che questo, la vita.E ancora ho immagini, di alcuni boschi in cui sono andato a passeggiare. Alla ricerca di funghi o di chissà cosa. Trascinato per lo più da qualche parente adulto. Ora quei boschi, a quarantatre anni vorrei ritrovarli, tutti. Se solo sapessi dove sono, vorrei partire. Perché?È questo il mistero. Per ritrovare ogni respiro perduto, ogni pensiero lasciato su quelle foglie che coprivano il terreno ammorbidito dall’umidità, prima di essere strattonato altrove.Così quelle foglie, quelle terre materiche, nella pittura di Michele Dolz, mi riportano l’odore di quei luoghi, che non posso ritrovare su nessuna mappa geografica, ma che appunto, forse, posso riconoscere dal profumo.Nell’ultimo progetto, presentato a Napoli, sono diversi tecnica e soggetto, ma non cambiano le circostanze attuative del suo lavoro. Alcune tele riportano stampati in grande formato, i volti di uomini e donne che non sappiamo identificare e che pure ci sembrano appartenere a qualcosa che ci riguarda. Possiamo tirare fuori ogni tela da un cassetto di un vecchio comò e toccare la stoffa su cui i tratti di quei volti sono impressi, modificandoli, continuamente, attraverso le pieghe e le tensioni prodotte delle nostre mani. Al di là della loro forma originale, queste immagini diventano necessariamente figure manipolate, visi da ricostruire, da ricercare. Ancora una volta ci muoviamo seguendo delle tracce, l’odore del tessuto, del legno di vecchie cassettiere per la biancheria. Chi stiamo allora cercando in quei volti? Io questo non posso dirlo, perché ognuno si espone ad un’opera d’arte come alla saggezza di un oracolo che possa restituirgli qualcosa di perduto.E allora è questo che dobbiamo chiederci. Cosa abbiamo perduto?  Lucrezia LongobardiSULLA DIMENTICANZANel tempo attuale è noto un certo tipo di meccanismo che potremmo definire della “dimenticanza”, di cui tutti, o quasi, siamo vittime. La società viaggia a velocità sempre più sostenute, i social dettano le mode e le politiche sono, perlopiù, ridotte a claim elettorali che poco contatto hanno con il principio del governo. Tutto è istantaneo, fugace, persino la memoria.Il risultato di questa combinazione è una diffusa assenza di sensibilità. Una sensibilità endemica, fatta di ascolto per quelle piccole eppure essenziali note a margine della vita; composta dall’attenzione verso l’altro inteso come uomo, cosmo, animale e fratello.In questo senso Napoli è una città interessante da osservare. Tra gli atteggiamenti che hanno costituito, attraverso i secoli, le sue liturgie culturali, c’è la cura per i defunti, un’attitudine nata in maniera naturale nel tardo Cinquecento e ancora oggi praticata. Le cosiddette “capuzzelle” sono i resti anonimi, i teschi ormai privi di un’identità terrena che, accuditi dal popolo napoletano, vengono fatti oggetto di preghiera perché la loro anima dispensi una grazia in cambio di un aiuto a passare dal Purgatorio al Paradiso. Un piccolo negoziato fra vivi e morti, una dinamica che potrebbe essere inscritta in quell’azione di mutuo soccorso da sempre agita dal popolo partenopeo. È questo il punto di contatto che ha portato Michele Dolz a scegliere la preziosa Chiesa del Purgatorio ad Arco come spazio ospite per il suo progetto Umanità senza nome. Capitolo 2.L’artista di origini spagnole, negli anni, così come i napoletani hanno ripescato ossa e crani da mucchi di reliquie anonime prendendosene cura, ha raccolto e conservato, a sua volta, foto ritratti di fine Ottocento, volti ormai dimenticati, senza un’identità, lasciati nelle ceste dei mercatini come oggettistica qualunque. L’atto di cura praticato da Dolz trova un punto di tangenza con l’usanza napoletana, e nella chiesa ipogea, amplifica, con rigorosa compostezza, questo sentimento che attiene al recuperare storie umane.I ritratti, stampati e lavorati su teli di grandi dimensioni, conservano un’aura che viene loro dal tempo che le ha portate fino a noi.Dolz è, principalmente, un pittore, e in questa sua particolare deriva alla ricerca di volti non cessa di elaborare raffinate stratificazioni e velature che si aggiungonoSono quelle le immagini che mi sono rimaste più impresse di quegli anni.Perché lì, in quel vetro bagnato che sfocava i contorni di tutto, c’era la cognizione dell’esserci, malgrado tutto il resto, l’infinita mole dell’universo, che sta seduto su di noi, come un elefante su una colonia di batteri. Eppure, ogni singolo batterio, è lì che si perde nei pensieri, nelle percezioni. Non è che questo, la vita.E ancora ho immagini, di alcuni boschi in cui sono andato a passeggiare. Alla ricerca di funghi o di chissà cosa. Trascinato per lo più da qualche parente adulto. Ora quei boschi, a quarantatre anni vorrei ritrovarli, tutti. Se solo sapessi dove sono, vorrei partire. Perché?È questo il mistero. Per ritrovare ogni respiro perduto, ogni pensiero lasciato su quelle foglie che coprivano il terreno ammorbidito dall’umidità, prima di essere strattonato altrove.Così quelle foglie, quelle terre materiche, nella pittura di Michele Dolz, mi riportano l’odore di quei luoghi, che non posso ritrovare su nessuna mappa geografica, ma che appunto, forse, posso riconoscere dal profumo.Nell’ultimo progetto, presentato a Napoli, sono diversi tecnica e soggetto, ma non cambiano le circostanze attuative del suo lavoro. Alcune tele riportano stampati in grande formato, i volti di uomini e donne che non sappiamo identificare e che pure ci sembrano appartenere a qualcosa che ci riguarda. Possiamo tirare fuori ogni tela da un cassetto di un vecchio comò e toccare la stoffa su cui i tratti di quei volti sono impressi, modificandoli, continuamente, attraverso le pieghe e le tensioni prodotte delle nostre mani. Al di là della loro forma originale, queste immagini diventano necessariamente figure manipolate, visi da ricostruire, da ricercare. Ancora una volta ci muoviamo seguendo delle tracce, l’odore del tessuto, del legno di vecchie cassettiere per la biancheria. Chi stiamo allora cercando in quei volti? Io questo non posso dirlo, perché ognuno si espone ad un’opera d’arte come alla saggezza di un oracolo che possa restituirgli qualcosa di perduto.E allora è questo che dobbiamo chiederci. Cosa abbiamo perduto?al materiale fotografico originario, aggiungendo in questo modo un suggestivo e delicato elemento che ha a che fare con l’organicità del tempo, quasi riuscisse, alchemicamente, a concettualizzare e dare forma al secolo, ai giorni ed ai minuti trascorsi e scivolati su quelle superfici stampate.L’allestimento di questa tappa napoletana del progetto, tenta di riportare a una dimensione domestica questi ritratti. Stipati in quattro grandi comò novecenteschi, le opere sono piegate e conservate come fossero un corredo antico e mostrato da due signore dei vicoli circostanti la chiesa che, come per le adozioni delle “capuzzelle”, si prendono cura di queste figure bidimensionali. Rafilina e Patrizia trascorrono tutti i giorni alcune ore intente a piegare e svelare le opere, raccontando il loro rapporto con le anime perse iniziato oltre quarant’anni fa.L’intersezione tra il culto dei morti napoletano e la ricerca di Michele Dolz mostra come il recupero della memoria possa essere un potente strumento per connettersi non solo con la nostra comunità, ma anche con un tessuto più ampio che è, poi, costituito dall’umanità intera. Questo ricordare e, quindi, rendere omaggio a ciò che è trascorso e non c’è più, non è solo un modo per onorare coloro che ci hanno preceduto, ma anche un mezzo per comprendere e interpretare il presente, fornendo un contesto e una prospettiva che arricchiscano la nostra esperienza del mondo e quel bagaglio sensibile - estremamente importante - per restare umani.  CONVERSAZIONETRA GIACINTO DI PIETRANTONIO E MICHELE DOLZGicinto Di Pietrantonio: Tu usi indifferentemente sia la pittura che la fotografia, come e perché scegli di esprimerti con l’uno o l’altro mezzo?Michele Dolz: La mia formazione è di pittore ed è quello che preferisco fare. Ma a volte utilizzo anche la fotografia non come prodotto finale dell’opera ma come una parte di essa, che alla fine è sempre pittorica almeno nello spirito. Ho fatto dei collage mescolando ritagli di foto con la stesura del colore, ho fato una sorta di mosaici fotografici con molte foto attaccate vicine, e altro. In questo caso, come già nella mostra precedente a Parma (capitolo 1), le foto non sono nemmeno mie, anzi sono dell’Ottocento. Ma hanno sopra l’intervento pittorico, le macchie, la corrosione dell’inchiostro.G.D.P.: Come hai scelto le foto che hai utilizzato per questi lavori in mostra, perché queste e non altre?M.D.: È da molti anni che mi interesso della nascita della fotografia e del cinema, dei loro primi passi. Ciò mi ha portato a cercare e acquistare delle foto antiche, in particolare i ritratti. Non si trovano facilmente, ma con un po’ di pazienza... Mi impressiona la “verità” di questi volti, che sono di persone vive e che hanno il crudele ma sublime realismo della vita vera. I ritratti pittorici, per quanto perfettamente eseguiti, erano all’epoca un po’ esangui, fissi, congelati. Qui invece no, con mezzi ben inferiori restituiscono una verità viva. Ora, Walter Benjamin, parlando proprio di questi ritratti li chiamava “umanità senza nome”, perché già nella sua epoca erano dei perfetti sconosciuti. Ora lo sono molto di più, sconosciuti ai loro stessi discendenti. Mi inquietano, vorrei domandare: chi sei? Perché mi guardi così? Cosa hai fatto nella vita? Chissà quante storie interessanti.Poi queste foto hanno un valore, diciamo così, democratico, perché per la prima volta tutti potevano farsi un ritratto a poco prezzo e regalarlo agli amici, a volte con dedica.Ho amato molto i lavori di Boltanski e riconosco che c’è qualche affinità. Ma Boltanski si poneva come archivista e a me questo non interessa. Anzi, in questa mostra le immagini non sono neanche esposte: bisogna aprire i cassetti, tirarle fuori e guardarle. Ma le immagini sono talmente grandi che chi le guarda tenendole in mano si sente sopraffatto da quel volto enorme che lo guarda e quasi lo interroga.G.D.P.: Parli di verità che è ciò che tutti cerchiamo, ma sappiamo che la fotografia, pur nel suo “realismo”, non è mai né reale, né vera, perché è comunque una costruzione. Il solo fatto dell’inquadratura presuppone una scelta, un punto di vista e dunque è una verità parziale. D’altra parte anche la messa in posa delle persone ritratte è un’azione costruita, infatti oltre alla posa ce lo dice l’abbigliamento delle persone che non sono colte per caso, ma che si sono vestite per essere fotografate, insomma si può dire che recitano per la foto.M.D.: Indubbiamente. Quei primi fotografi avevano in mente la ritrattistica pittorica, l’unica che conoscevano, e cercavano di restare in quell’alveo estetico. Già nel 1860 tutti disponevano di studi attrezzati con sfondi di paesaggio, per esempio, o con mobili e piante. La posa veniva studiata e via dicendo. E tuttavia c’è in questi volti una vivezza tale che è uno dei motivi per cui li ho deturpati con macchie di diverso tipo. Una volta fui ospite in un’antica casa sul lago Maggiore e mi assegnarono la stanza padronale. C’era lì un grande ritratto fotografico di una anziana signora, sempre dell’Ottocento, che mi fissava in un modo che non riuscivo a dormire.G.D.P.: Una delle caratteristiche delle foto, soprattutto di quelle “vecchie”, di cui anche tu ti servi, è quella dello sguardo. Dovremmo essere noi a guardarle, e certamente lo facciamo, ma poi ci accorgiamo che esse ci guardano più intensamente di come noi guardiamo loro. Eppure sono solo delle immagini. Perché credi accada questo? Inoltre più le foto sono antiche e più abbiamo la sensazione che lo sguardo dei fotografati sia intenso. Forse perché ritraggono persone che oramai sono morte e, come dicevano gli antichi greci, la morte ha a che fare con lo sguardo. Difatti, quando uno moriva dicevano che aveva guardato per l’ultima volta e da lì credo derivi anche la tradizione di chiudere gli occhi al defunto.M.D.: Non so se ti è mai capitato, ma non c’è niente di più spaventoso di un defunto con gli occhi aperti. In genere io mi sono sempre rifiutato di visitare luoghi di esposizione di cadaveri, mummie ecc. C’è, o c’è stata, una vena macabra molto forte anche nel cattolicesimo, che credo non abbia nulla a che vedere con la memoria e la preghiera per i defunti. Questa mostra, paradossalmente, è di persone vive, anche se sono tutte morte. Per questo ci “guardano”, credo. A me interessa la memoria, mi piacerebbe che in qualche modo si conservasse, come una traccia registrata, la vita delle persone comuni. È impossibile, naturalmente. Anche noi finiremo nel dimenticatoio... Beh, almeno io e te abbiamo lasciato qualche libro e qualche quadro.G.D.P.: Un’altra delle caratteristiche della fotografia è quella di contenere il tempo, che è sempre un tempo andato. A me pare che oltre a questo tempo-memoria le opere in questione testimoniano anche un tempo in divenire, dunque lo scorrere del tempo. Questo lo vedo nelle macchie di colore che gli metti sopra. Il dripping Per cui se la messa in posa delle immagini fotografiche ha a che fare con il ritratto che è un fissare il tempo, le macchie da te aggiunte hanno a che vedere con il tempo che passa, fanno pensare a qualcosa, alla vita che vive e vivendo si consuma. Le immagini sono infatti delle immagini consumate.M.D.: Sì, questa è la mia intenzione. Aggiungo delle macchie, le imbruttisco, per significare le ferite del tempo, da vivi e da morti. Naturalmente questo non è dichiarato, spero che sia sufficientemente comunicativo perché la gente lo capisca senza parole, come deve fare ogni arte. Tu, per esempio, lo hai capito.G.D.P.: Inoltre, tornando alla memoria, che tipo di memoria ti interessa rivelare, quella personale o quella collettiva, tenendo anche presente che ci sono studi che dicono che la memoria e il tempo non vanno tanto d’accordo, più passa il tempo e più essa diventa fallace, sbiadisce. È di questo appannamento del ricordo, che è poi una riscrittura della storia, che parlano le tue opere?M.D.: Per questa mostra ho scelto ritratti di singoli. Come ho già detto, mi intriga la loro vita ornai sconosciuta per sempre. Ho anche delle foto di gruppi familiari o – già del Novecento – di gruppi in azione. Questo richiederebbe un altro pensiero, nel caso ci volessi lavorare. Comunque sì, le macchie – a volte anche violente – sono il tempo passato ma anche la frustrazione di non poter sapere nulla dell’effigiato.G.D.P.: Ogni opera e per estensione mostra che usa la fotografia è anche una riflessione sulla realzione tra arte e fotografia, che sebbene abbastanza superata, continua sottotraccia a persistere. Nadar diceva che «non esiste la fotografia artistica, ma che nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare». Come pensi che le tue opere rispondo a questo dibattito?M.D.: Non posso essere più d’accordo con Nadar dopo una vita intera nel mondo dell’arte. C’è chi vede e c’è chi non vede. E l’arte non si può spiegare a parole. Ora le foto di Nadar hanno quel qualcosa in più, inspiegabile ma che si vede in termini di profondità psicologica. È uscito un libro meraviglioso, una specie di album di ritratti di Nadar (Abascondita 2010), basta sfogliarlo. E non invano fu il primo a capire gli impressionisti pur lavorando in direzione opposta: è la condivisione di quel metalinguaggio indefinibile dell’arte.La foto che ho scelto qui, tra le varie centinaia che posseggo, non sono opere d’arte. Il fascino che provo, semmai, è nelle persone stesse. Ho una foto di un mio bisnonno, nato nel 1860, che è una brutta foto, ma io di quel giovane uomo so tante cose. Così mi piacerebbe con tutti.   Giuseppe StamponeQUALCOSA DI NUOVO E DI VEROParlare dell’opera Umanità senza nome. Capitolo 2 significa parlare di una sintesi del lavoro di Michele Dolz. Per sintesi intendo una forma evoluta che, in questo specifico caso, trasforma una bidimensionalità in tridimensionalità, una circostanza che riesce a dare allo spettatore una percezione ancora più spirituale del lavoro dell’artista, attraverso l’emergere di una più oggettiva spiritualità. Dolz ha sempre prediletto la pittura nella sua ricerca, un segno che obbliga il fruitore ad un rapporto di contemplazione, di “distanza”. Nella mostra napoletana, invece, mediante un allestimento nuovo alla pratica dell’artista, lo spettatore ha un rapporto fisico con l’opera, in un insieme sinestetico che coinvolge totalmente l’altro. In questo lavoro specifico, realizzato all’interno della Chiesa del Purgatorio ad Arco di Napoli - c’è una scelta precisa che mira a valorizzare il lavoro dell’artista stesso.È palese, dunque, come questo raffinato lavoro abbia inevitabilmente coinvolto il luogo, valorizzato grazie al display divenuto dispositivo di attivazione che obbliga lo spettatore ad “un’inciampo”, un’interazione all’interno dello spazio.Il lavoro è, in sé, una sorta di archivio, una memoria di cui Michele Dolz non ha documenti né connotati di alcun tipo. Grazie alla sua fede, alla sua sensibilità ed alla sua forma mentis, ha ri-donato vita all’essere umano ritratto in quelle fotografie, ponendo al centro del lavoro l’uomo e la sua esistenza senza ideologie, senza narrazioni di alcun tipo.Un atteggiamento, questo, che si manifesta nella pratica quotidiana di Michele Dolz.Quando ci siamo conosciuti non sapevamo nulla delle nostre storie private ed io mi trovavo in uno dei momenti più brutti della mia vita. Stavo toccando il fondo e lui lo ha percepito, mi ha visto.Ancora ricordo come ogni sera mi chiamava per salutarmi, ma non per farlo in nome di qualcuno o qualcosa, ma per salutarmi da amico, da essere umano.Michele è un uomo che, talvolta, dimentica tutto per riportare tutto all’emotività, al rapporto fisico, alla parola parlata, al non detto, al percepito. Quest’opera rappresenta la forma del rapporto che ho avuto con lui.Anche io, all’inizio della nostra frequentazione, ero un’immagine come tutte le altre che lui ha tirato fuori dall’archivio. Anche io sono stato oggetto di un ingrandimento, che ha richiesto tempo, curiosità e la volontà di capirmi come uomo prima ancora che come artista a mia volta. La percezione che Michele Dolz ha dell’essere umano è quella che vede questa creatura al centro dell’universo, una visione ortodossa, ma anche pre-rinascimentale, onirica che riconduce ad un’armonia naturale tra uomo e spirito.   

PAESAGGI IN QUARANTENA

Un periodo di chiusura incerto, un caro amico che mi sproma: "torna al paesaggio!". Era Giuseppe Stampone.Prendo tele e tavole piccolissime e mi diverto (forse un po' troppo) a prosciugare l'idea del paesaggio.Sono piaciuti a tutti, (forse un po' troppo).

MEMORIA - MUSEO DEL PAESAGGIO, VERBANIA

MICHELE DOLZ. LA MEMORIA E L’ESSERE  Elena Pontiggia La memoria, che dà il titolo a questa mostra di Michele Dolz, è qualcosa di diverso dal ricordo. “Ricordare”, dal latino “cor”, ha a che fare col cuore. “Memoria”, dal greco “mimnesco”, indica invece un'azione della mente. Mnemosine, nella mitologia classica, è la sua personificazione e, non a caso, è la madre delle Muse perché l’arte, come diceva Derain, “è ancora e sempre la memoria delle generazioni”.Certo, cuore e intelletto non vanno separati rigidamente: si intersecano e si riflettono l’uno nell’altro. Eppure è la memoria, non il ricordo, che ispira la pittura e l'opera concettuale di Dolz (Castellon, 1954), un artista spagnolo che ormai vive in Italia da quasi mezzo secolo.  La sua non è una rievocazione sentimentale, venata magari di una nostalgia che, come ogni nostalgia, è a rischio di edulcorazioni, se non di retorica. E’ invece un'operazione mentale che si propone di non dimenticare la fisionomia dei paesaggi che si sono susseguiti nei secoli, e nemmeno “l'umanità senza nome” (l'espressione è di Walter Benjamin) che ci ha preceduti e che nessuno, tranne Dio, conosce più.I paesaggi di Dolz non sono abitati dall'uomo, ma lo presuppongono. Vedendoli si capisce che l'uomo li ha misurati, li ha percorsi, li ha coltivati col suo lavoro, seminandoli, arandoli e raccogliendone i frutti. Le linee che nei suoi quadri attraversano il terreno (e che infondono un sottile ritmo in una stesura materica capace di riannodare un dialogo con l'informale) sono i segni della presenza umana. Dolz dipinge paesaggi senza tempo: forse i suoi campi sono stati coltivati dai nostri bisnonni contadini, forse dai contadini di Ulisse. Non sono paesaggi veri, ma archetipi della terra e del cielo che la lambisce. Quei solchi, insomma, sono come le circonferenze nei tronchi degli alberi, che ogni anno aumentano (“anelli di accrescimento annuale” è il burocratico nome che danno a quei cerchi gli scienziati): dicono di un tempo passato, ma di cui è rimasta l’eco di un’operosità senza gloria, eppure preziosa.Nell'Intervallo, il titolo che l’artista ha dato al suo ultimo ciclo di fotografie, avviene qualcosa di simile. Dolz cerca sulle bancarelle, nelle librerie in disuso, nelle botteghe dei trovarobe (tutti luoghi lontani dal mainstream della fotografia di moda)  e trova immagini di uomini e donne che hanno vissuto in un'epoca imprecisata di un passato non troppo lontano, mostrandoceli in tutta la loro naturalezza. Insieme queste figure, raggiunte da qualche macchia o pennellata, formano un mosaico quasi pittorico. I loro volti, le loro espressioni, il colore indefinito e sobrio delle fotografie suscitano una singolare suggestione.Sappiamo che quegli uomini e quelle donne non ci sono più, ma è come se fossero ancora insieme a noi. C'è, in quegli scatti di un autore sconosciuto, qualcosa che sentiamo familiare e che ci assomiglia. Forse perché quelle persone sembrano ancora vive. Forse perché sono ancora vive. E l’artista, con una razionalità partecipe, ne custodisce la fisionomia, ne archivia il volto, ne registra l’impronta.Nel lavoro di Dolz non c'è la malinconia inesorabile di Emily Dickinson, la grande poetessa americana che scrive: “Questa polvere quieta/ fu signori e signore/ e giovani e fanciulle/ fu riso, arte e sospiro […] Poi anch'essi ebbero fine”.Qui, nelle sue opere, non c'è una polvere che non si muove più, ma una vita di cui non sappiamo nulla, ma intuiamo l’essenziale: che quella vita continua ancora. Il suo Intermezzo, allora, è un lavoro concettuale non solo perché accanto alla pittura adotta altri linguaggi, ma perché ci spinge a una considerazione della morte che si vena anche di speranza. La memoria non è solo rievocazione del passato, ma anche presentimento del futuro. Questo dicono quei volti silenziosi, senza apparente funzione o scopo, ma sul punto di rivelarci quello che sanno, e che è l’unica cosa che conta. Come nel verso di Sereni: “Non dubitare… parleranno”. 

MANKIND WITH NO NAME

MANKIND WITH NO NAME  Photography was born in 1839 from the experiments of Daguerre and Talbot. And since 1850 it was already in common use.It was the first time that ordinary people could take a portrait. It was no longer necessary to be rich, a noble or a cleric and to pose before the painter. Photography  spread everywhere, in all the cities there were photographers who with their contraption could make you a portrait so true that no painter could have gone that far. Then they handed it to you carefully pasted on a card and you could give it to your children, grandchildren, the people dear to you, so they could  possess a fragment of you, your true imprint, not the painter’s artifice. The portraits we have left speak of living people, a captured instant of their lives, generously donated to posterity. But alas, We today will never know anything about those women and men who keep looking at us silent but alive. Walter Benjamin called it “humanity without a name”. “In Hill’s New-haven fishwife”, he wrote on one of these images, “her eyes cast down in such indolent, seductive modesty, there remains something that goes beyond testimony to the photographer’s art, something that cannot be silenced, that fills you with an unruly desire to know what her name was, the woman who was alive there, who even now is still real and will never consent to be wholly absorbed in art”.It is the miracle of photography and its enigma that remains. Not all photographers were artists, but all of them told the truth, even those who were reduced to retouching, to the theatrical setting, ostentatious, ridiculous even then.These photos from the second half of the nineteenth century are of ordinary and today anonymous people. But they scream like wandering spirits who want to talk to you, because they exist.Adding abstract stains on the photographs Michele Dolz seeks to bring these images to our present time. To make them thriving, so we can see these people too, as they seek to see us. And remember, and pay tribute to our past, our genitors, our families. Our society’s collective past is a subject that Dolz first started working on 2018 with an installation called Ecce Homo, a tribute to his grandfather and the people of Castellon, Spain, in the end of the 19th Century. It was made of a printed photograph on canvas and jute bags, showed in the same year at Catellón, and later on at The National Exemplar Gallery in NYC.Eneas CapalboNew York, June 20th 2019 Portraits lost and regainedBy Chiara Canali Graham Clarke, in The Portrait in Photography, states that portraiture is one of the most problematic areas of photographic practice: "Portrait photography is full of ambiguity at almost all levels, in any context". Since the dawn of the photographic portrait, the photographers have focused the problem of expressing in a single image an alleged "interior". A good portrait captures a moment of immobility in the daily flows of things, showing the interiority of a person. Fascinated by the strength and mystery of a multitude of long-lost personalities, Michele Dolz discovered and collected in the markets photos from the second half of the nineteenth century. Faces in the foreground or half-length portraits of anonymous, unknown people who disappeared in the depths of history, but who still declare their presence and relevance today through a single image, torn from the flow of social events. The portraits convey to us something of a bygone era, on which the patina of time has settled. On these portraits Michele Dolz intervenes by depositing acid spots, corroding the black and white of the surface, to bring to light the sign of individual existences and unrepeatable stories. Dolz turns to the past memory, the individual memory of our families and ancestors, and the collective memory of our society, and brings back the emotional experience. Memory thus becomes an intimate place, of inner experiences and lost emotions experienced in the past, but then reconquered and updated in the present. Aware that the image will perhaps survive, Dolz considers himself to be the fragile, transitory element, while the image is the future element, the element of duration. His final image thus acquires more memory and more future than he who looks at it hic et nunc, in the present of vision. 

EX VOTO

EX VOTO Accade / che le affinità d'anima non giungano / ai gesti e alle parole ma rimangano / effuse come un magnetismo. È raro / ma accade. / Può darsi / che sia vera soltanto la lontananza, / vero l'oblio, vera la foglia secca / più del fresco germoglio. Tanto e altro / può darsi o dirsi. /Comprendo / la tua caparbia volontà di essere sempre assente / perché solo così si manifesta / la tua magia. Innumeri le astuzie / che intendo.Insisto / nel ricercarti nel fuscello e mai / nell'albero spiegato, mai nel pieno, sempre / nel vuoto: in quello che anche al trapano /resiste. / Era o non era / la volontà dei numi che presidiano / il tuo lontano focolare, strani / multiformi multanimi animali domestici; / fors'era così come mi pareva / o non era. /Ignoro / se la mia inesistenza appaga il tuo destino, / se la tua colma il mio che ne trabocca, / se l'innocenza è una colpa oppure / si coglie sulla soglia dei tuoi lari. Di me, / di te tutto conosco, tutto / ignoro. /EUGENIO MONTALE (Satura, Milano, Mondadori 1971).

ECCE HOMO INSTALLATION

My name is Llorenç Benedito. I was born in Castellón in 1860 and now I am dying in my own bed on June 14, 1938. The bells of my funeral are the bombs of the approaching nationalists.They told me that when you die you see your whole life. They told me the truth. I am frightened neither by death nor the encounter with God. But the question remains as to what I leave here below when the bombs stop and this dirty war against each other in our own land ends. To the world I have given two daughters and a vast expanse of rice fields.Grandpa showed me the stars. For all of them he had stories. And I gawked at the sky on summer nights. I, Pepita, his favourite granddaughter. Grandpa was tall, blond, with light eyes, handsome and strong. He had a benevolent look.None of us were born when he undertook, alongside other men, the epic enterprise. They transformed the Serradal bog into rice fields. The water was not lacking, but to overcome and subdue it was memorable. He did not boast, he had done it and that was enough. Kilometres of rice fields. And in a piece of his land he built a cabin. In order to look at the stars.He sat on the plough behind the horse. The plough penetrated the mud, the beast tired. The grandfather hummed old melodies, maybe he prayed.Now that I am leaving, I do not care anything for all that. I care that my daughters and my grandchildren will find the work done. They will reap the benefits. If this filthy war is silenced. How much hatred and betrayal. I, who will soon die, have forgiven them.Everything is taken, everything is chargedthe holy back of the Earthwhat walks, what sleeps,what frolic and what pity;and he's alive and he's deadthe Indian drum of the Earth.(Gabriela Mistral)My Grandfather died on the last day of the war, but not the last of the anguish. They locked his body at home to run to the shelter, the goddamn bombs. They buried him in a common grave along with all the dead of battle.And when the dream comesto extend and take meto my own silencethere is a great white windthat knocks down my dreamand the leaves fall from it,they fall like knivesabout me bleeding me.(Pablo Neruda)When I was a child I never heard of great-grandfather Llorenç. I lived, yes, the last years of those fields of Serradal. We spent summers kneading in a new farmhouse. Grandparents, uncles, cousins, parents and siblings. Large paellas, a lot of desert and wild beache. Baths in the ditch and children's excursions on a raft in the channels that the ducks crossed.The harvesters arrived from some distant and mysterious place and they watered the fields in the sun with the mud up to their knees. Sometimes they allowed me to do their job. And the Grandmother (mine, the mother of my mother Pepita) prepared memorable sandwiches and salads. The sacks, jute sacks full of rice, sacks and more sacks that those men wore on their backs.I met the birds, the frogs, the snakes, the eels, the dragonflies, the butterflies. Mosquitoes and ointments against mosquitoes. They did not show me the stars, I discovered them myself. And at night time I looked at them. They gave you vertigo.What are the roots that clutch, what branches growOut of this stony rubbish? Sun of man,You cannot say, or guess, for you know onlyA heap of broken images, where the sun beats,And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,And the dry stone no sound of water. (T.S. Eliot)That's how it went. That world died. They dried the Serradal for hygiene or for money. In exchange for nothing. We built another house where the reapers had sweated. Perhaps for the best. The dragonflies and the frogs and the snakes left. The canals were dirty. The beach was populated by bathers and beach bars. The noise came, a lot of noise, noise, noise.Nobody spoke of the great-grandfather, nor rice or salads. He was old, he was poor, he was ignorant and uncouth. He was an Ecce Homo.Michele Dolz

DE LA TIERRA, Spai Cultural Obert Les Aules, Castellón, Spain

CATALOGO: https://issuu.com/culturadipcas/docs/dolz_issuu DE LA TIERRA, Una exposición de Michele Dolz. Ciclo Metáforas sinestésicas de Marte Modern Art Experiences. Espai Cultural Obert Les Aules. Diputación de Castellón. 

2016 - How Deep is the Ocean

Opere dense e simboliche, un colore stratificato e metaforico, una stesura dove la materia cromatica vibra di fermenti vitali: nel suo recentissimo ciclo, Michele Dolz lavora attraverso codici allusivi in una pittura che suggerisce una riflessione complessa e articolata sull’animo umano e sui suoi arcani.Il titolo è ripreso dalla canzone How Deep is the Ocean di Irving Berlin e si ispira anche a un’altra canzone, Com’è profondo il mare di Lucio Dalla: due testi che si riferiscono alle profondità dell’uomo, a sentimenti d’amore e di dolore e ad abissi inconsci, alla libertà e alla sua limitazione, alle ascese e alle cadute, alle passioni, alle emozioni e alla loro cancellazione. 

2015 - Still Life 200

Nell’arte della pittura – in quanto distinta, si osservi bene, dall’arte del colorire – quello che conta è stimolare in qualche modo la coscienza dei valori tattili; affinché il dipinto valga almeno l’oggetto rappresentato, nella capacità di stimolare l’immaginazione tattile.  (Bernard Berenson)

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