Sarebbe interessante conoscere che cosa dissero i contemporanei quando nel 1475 Antonello da Messina dipinse la celebre Annunziata. Perché di sicuro un’immagine del genere non l’avevano mai vista. Anche noi rimaniamo ammaliati dal fascino indefinibile e inesauribile che essa emana. Il dipinto, di soli 40 x 34 centimetri, ci presenta una giovane donna che occupa tutto lo spazio. È coperta da un velo o manto di un timbro bellissimo di blu oltremare che le incornicia il volto evidenziando la perfezione dell’ovale e dandole una forma vagamente a forma di cuore. La donna ha la bocca serrata ma abbozza appena un lieve sorriso, e ha gli occhi persi, come se meditasse. Con la mano sinistra si chiude il velo sul petto e avanza la mano destra verso di noi in un ardito scorcio. È stata sorpresa mentre leggeva un libro, ancora appoggiato sul leggio. La massa azzurra del velo crea un triangolo perforato dal volto e le mani.
Non è possibile passarci sopra. Si resta intrappolati in questa bellezza semplicissima e ci si sente interpellati perché questa donna, pure con lo sguardo interiore, è rivolta a noi.
Comunque, come scrive Evelina De Castro, è «sconsigliabile avventurarsi a parlare di un’opera di cui tutto è stato detto, poiché tutto essa contiene: la sintesi spaziale italiana e l’analisi lenticolare nordica; Piero e i fiamminghi; la più bella mano dell’arte e la piega sul capo del manto appena tirato fuori dal baule; l’assenza dell’angelo e la sua immanenza nel gesto e nello sguardo della Vergine che segue la luce e nella pagina che si solleva; e così via in una lunga sequenza di citazioni evocative di una mole di studi, alta letteratura e interpretazioni che nutrono la storia dell’opera».
Per tradizione sappiamo che è la Madonna al momento dell’annunziazione. E possiamo credere, per vari indizi storici (di certezze ce ne sono poche nella storia di Antonello), che fu dipinta a Venezia. Proprio la Venezia quattrocentesca getta una luce forte per la lettura del dipinto, che date le dimensioni e l’immediatezza doveva essere destinato alla devozione privata (anche questa è una luce).
Venezia è stata nel XV secolo il ponte della devotio moderna verso l’Italia. Protagonista indiscusso di quella stagione, insieme a Ludovico Barbo, fu san Lorenzo Giustiniani, primo Patriarca di Venezia, morto nel 1456. Amato e ascoltato da tutti, fu predicatore efficace e autori di testi basilari per quel nuovo spirito. Uno dei capisaldi della devotio moderna era la meditazione costante, e in essa la contemplazione del vangelo come se si fosse presenti: una meditazione «visiva». Jean Leclercq ha notato nei testi l’insistenza su termini, all’imperativo, come stringe, tene, vade, amplectere, sequere, proice te, revertere, plora, recede, associa cum, ecc.
Questa pratica, certamente molto viva ancora nella Venezia del 1475 col supporto delle varie osservanze, ci dà una chiave per guardare nel modo originario l’Annunziata. Più di tutte le immagini coeve essa è la quintessenza dello spirito devoto come veniva proposto. Io, devoto, entro realmente in quella stanza dove Maria è stata sorpresa dall’arrivo dell’angelo; mi sono addirittura sostituito all’angelo e la vedo fare quel gesto trepidante di chiudersi il manto e avanzare la mano verso di me chiedendomi un momento per rifarsi dalla sorpresa o, forse meglio, per pensare alla tremenda proposta che ha appena ricevuto. Antonello priva me, devoto, di ogni contesto: non c’è una stanza, una finestra, un oggetto che mi possa distrarre dall’attenzione verso colei che in quel momento sta per diventare la Madre di Dio.
Era Antonello stesso così devoto o così versato nelle nuove correnti spirituali? Non lo sappiamo. Ma Venezia non era grande ed è possibilissimo che sia venuto a contatto con qualcuno che lo abbia orientato. Bellini stesso, che egli conobbe bene, era persona molto religiosa e assai profonda. Già le sue Madonne dipinte negli anni Cinquanta e Sessanta hanno forte attinenza alla devotio moderna per il raccoglimento che mostrano: quegli occhi persi in meditazione, così tipici dell’arte devota fiamminga. Del resto, fu proprio suo fratello Gentile a dipingere nel 1465 l’unico ritratto rimasto di Lorenzo Giustiniani a nove anni dalla sua morte, e questo è se non altro un indizio di vicinanza agli ambienti della nuova spiritualità. Ebbene, Antonello supera questa misura e compie un passo deciso verso la meditazione sicut presens, come se tu fossi lì, che anticipa di un secolo quel che si cercò di fare nei sacri monti e nella «composizione di luogo» di sant’Ignazio, frutti tardivi della devotio.
Ora lo si può ammirare a Milano, nella mostra Antonello da Messina, promossa da Palazzo Reale e MondoMostre Skira, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa. Esposizione destinata a rimanere negli annali perché è probabilmente, la più completa che si poteva fare oggi. Le opere rimaste di Antonello sono trentacinque e qui ce ne sono diciannove. Difficoltà conservative e una comprensibile resistenza di alcuni musei a privarsi per mesi dei pezzi forti giustificano gli undici dipinti mancanti. Per esempio, la National Gallery di Londra ne possiede cinque e alla mostra ha ceduto il più emblematico: San Girolamo nello studio. Ma l’esposizione è corredata da uno straordinario libro Skira, che non è il catalogo della mostra ma una monografia aggiornata di tutto il catalogo antonelliano, con il punto sul progresso degli studi e fotografie di una perfezione raramente vista. Con tutto ciò la mostra di Palazzo Reale non solo permette di inoltrarsi nell’opera del messinese ma si pone tra le più alte realizzazioni espositive degli ultimi anni in Italia.
Purtroppo, però, Antonello, nella sua biografia e nella sua opera, è arrivato a noi in minima parte. Come scrive Villa con simpatica disinvoltura, ciò che abbiamo «di Antonello da Messina è sopravvissuto a terremoti, smembramenti, fallimenti di famiglie, naufragi, alluvioni, pareti umide, incuria degli uomini, ignoranza, avidità, insulse paure, dabbenaggini», e in diversi casi è stato rovinato da restauri maldestri. Vedere insieme queste diciannove opere, poterle guardare con calma da vicino (poiché sono di formato piccolo se non piccolissimo) è un’emozione e un privilegio.
È proprio guardando insieme l’Annunziata e i ritratti che si percepisce il miracolo antonelliano: le persone, anche in dimensioni ridotte, sono vere, sono realmente lì. Si è detto molto sul volume delle figure di Antonello e dell’influenza di Piero della Francesca. Si è scritto all’infinito sulle influenze fiamminghe, che in generale vuol dire la cura del particolare realistico. Tutto verissimo. Ma il miracolo rimane perché queste persone sono ben più presenti di quelle di Piero e di quelle dei ponentini. Viene subito in mente il Ritratto d’uomo del 1470 circa, oggi a Cefalù, popolarmente noto come Ritratto di ignoto marinaio (cosa che faceva arrabbiare Roberto Longhi). È il volto di un siciliano che ha molto vissuto e visto, e che ci guarda con un sorriso un po’ beffardo, un po’ supponente, un po’ amichevole, tutto insieme. Noi spettatori entriamo immediatamente in empatia con questo tipo, perché è vivo. Al tempo stesso (e qui c’è l’altra metà del miracolo) un volto così caratterizzato, col risolino, la barba non rasata, lo sguardo ammiccante, dovrebbe essere un po’ aneddotico, un po’ «di costume»; e invece no, rimane universale, prototipico e risponde alla distinzione aristotelica tra storia e poesia, dove la poesia è assoluta, essenziale. Si può dire di tutti i ritratti presenti, non si saprebbe quale scegliere. A questo effetto empatico aiuta la straordinaria plasticità della materia pittorica, di tempera grassa e olio, una novità dell’epoca, che incanta. Non c’è la maniacale descrizione del dettaglio come nei nordici, Antonello è più libero, suggerisce più che raccontare. La tavoletta minima e bifronte col Cristo in pietà e una Madonna, di soli quindici centimetri, ne è un esempio toccante.
Questo percorso antonelliano ha una guida di eccezione: Giovan Battista Cavalcaselle (1819-1897), il «principe dei conoscitori», come lo chiamava Longhi. Fu lui lo scopritore e il primo storico vero (perché il Vasari, pur stimandolo molto, ne aveva scritto un romanzetto), che percorse poverissimo le strade siciliane, come anche il resto d’Italia e non solo, e seppe riconoscere la mano, la tecnica e le idee di Antonello in un primo, coerente inventario di lavori. Entrato in sodalizio con il giovane giornalista britannico Joseph Archer Crowe, il Cavalcaselle fu più apprezzato all’estero che in patria. Bisogna immaginarlo (visione romantica) in visita a chiese e palazzi alla ricerca dei tesori della pittura. In mancanza di macchina fotografica, disegnava con discreta precisione i dipinti e completava i disegni con acute annotazioni. Tutto il corpo di quaderni e fogli sciolti è stato restaurato in occasione di questa mostra, e le pagine relative ad Antonello sono esposte vicino ai dipinti che le hanno originate. Un tocco in più di umanità in questa rassegna già tanto coinvolgente.
Chiude il percorso un dipinto del figlio, Jacobello di Antonello da Messina, che si fece carico di completare quanto la morte aveva impedito al padre di terminare. È una Madonna col Bambino del 1480, oggi a Bergamo. Jacobello l’ha firmata così: 1480 XIII Ind. Mésis Decébris/ Jacobus Anto.lli filiu nö/ humani pictoris me fecit. Il padre, il pittore non umano era morto e il figlio lo omaggia con struggente devozione.
Michele Dolz
In Studi Cattolici, Febbraio 2019.