Aveva appena aperto la porta quando senza preamboli mi disse: «Questo è un ologramma, abbastanza recente». E andò a preparare altre opere. Vedevo un vetro triangolare, di suo già molto bello, retroilluminato dal basso. Cercando l’angolatura giusta a un certo punto mi apparve un mirino da fucile con i cerchi concentrici e la raggiera di trattini. Poi scoprì dietro una punta acuminata. Pensando che fosse la sorgente della proiezione abbassai la testa per cercar di capire e… no! Era una pallottola! Torno veloce al punto di prima e mi trovo puntato da un proiettile attraverso il mirino, l’esatto opposto di quel che uno pensa. Ora scopro il trucco, però. No, niente trucco, non c’erano né pallottola né mirino. Un ologramma, appunto.
«Volevo parlare della minaccia che incombe su di noi, di come uno si senta in pericolo un po’ sempre con tutte le cose che succedono». Era tornato.
La visita allo studio di un artista è più illuminante di una mostra, benché meno completa. Ma i lavori di Nicola Evangelisti li conoscevo già. Avevo guardato a lungo i suoi «quadri» dove sottili linee di luce, spesso cangiante, s’intrecciano in qualcosa di vivo. E avevo visto anche l’affascinante proiezione Lux inaccessibilis sull’abside di San Domenico.
Certo la Light Art, l’arte fatta con elementi luminosi, non è una novità. Qualcosa cambiò nell’arte contemporanea nel 1951 quando Lucio Fontana iniziò a esporre i suoi ghirigori fatti con piegature di tubi al neon. Sculture di luce. Da allora il metodo è stato usato e abusato. Incredibile che ancora oggi si continuino a esporre scritte al neon per nulla diverse dall’insegna del mio barbiere. Al lato opposto sono ormai musealizzati i lavori di Dan Flavin e gli altri minimalisti «elettrici» che non si concentrano sulla sorgente della luce ma sull’effetto ambientale di essa; ne sono venute fuori opere molto belle. In mezzo, un’ampia gamma di possibilità che solo forzatamente rientrano del concetto di Light Art, come le proiezioni discotecare o tutto il videomondo.
Trovo che i lavori di Evangelisti vadano a cercare legittimazione nella luce in quanto luce. Non nella forma della lampadina (lavori al neon) e nemmeno nei suoi riverberi sulla parete (minimalismo luminoso). Egli interviene sulla luce stessa, modificandone le qualità, utilizzandola come il medium della sua arte. Un filo di luce, per esempio, percepito attraverso un segno graffiato su una base opaca e originato da un led retrostante e mutante. Per me spettatore quella è la luce, non considero tutto il teatrino del «quadro» ma solo il filo di luce, lo seguo nel suo avvilupparsi in curve e ramificazioni, nel mutare tonalità e temperatura. Spesso questi tratti creano riverberi, si specchiano, si moltiplicano, si amplificano, oppure si perdono esausti. Si confondono i piani, si abbandona anche il desiderio di «capire com’è fatto», perché ci si è convinti che la luce e non il graffio è l’opera. E allora si sperimenta il godimento estetico di un medium forse mai visto. «La luce elettrica è un medium senza un contenuto», diceva Marshall McLuhan ed Evangelisti ripete volentieri: «La luce diventa la materia con cui plasmare la propria opera. Non un mezzo per veicolare un messaggio sottomettendosi a esso. Prendere la luce e dominarla secondo le proprie necessità. Questo è lo spartiacque tra la Light Art e l’arte elettronica e digitale tout court, che fanno un uso di sorgenti luminose per veicolare concetti e messaggi non necessariamente solidali allo strumento utilizzato».
Nelle opere di grandi dimensioni il discorso diventa ancora più chiaro. Lamina lucens e Light Blade sono due grandi strutture che contengono una sorta di fulmine colorato. «Di giorno la fisicità del corpo della scultura, di notte la smaterializzazione con l’apparire del segno di luce». La blade, lama luminosa, è stata esposta per anni alla Villa Reale di Milano, una lama che attraversa il pilastro del porticato. Ora fa parte della collezione della GAM.
«Mi sembra però che il contenitore Light Art ti stia un po’ stretto».
«Beh, c’è molta confusione, sotto quel nome c’è di tutto».
Ha ragione, dal design alla pubblicità chi è che oggi non lavora con la luce? Perciò egli restringe in campo: «Intendo la Light Art come la tendenza che trova nella luce elettrica una identificazione tra mezzo e contenuto, istanza concettuale ed estetica della propria poetica artistica». Ma va anche oltre: «Intendo la Light Art come evoluzione delle categorie classiche dell’arte visiva. Ho sempre cercato di creare una scultura di luce».
Una scultura, quindi. Fatta di luce anziché di marmo, di bronzo o di legno. Un profano potrebbe dire: una scultura virtuale, allora. E sentirebbe il grido di Evangelisti: No! «La questione non si pone solamente in termini di virtuale o materiale, in quanto entrambi appartenenti alla dimensione della realtà, ma esiste piuttosto una differenziazione tra forme tangibili e non tangibili». Perché la forma c’è, a differenza di quanto accade in una simulazione al computer, qui l’oggetto è ben definito e presente. Ma fatto di luce.
Guai tuttavia a scartare il computer. «Non mi sono identificato con nessuna tecnologia in particolare, ma tutte sono finalizzate alla realizzazione di sculture di luce». Se un led o un laser son in grado di sostanziare una scultura di luce, se li si può usare al posto del marmo, allora alcuni software si possono considerare come gli attrezzi dello scultore per modellare la luce. Programmi usati anche nell’industria, poco importa. Con uno che trasforma gli impulsi sonori in impulsi luminosi, per esempio, si possono creare effetti da baraccone oppure opere d’arte; lo scalpello non è responsabile della scultura bella o brutta, è neutro. E qui si apre un altro campo applicativo dell’arte di Evangelisti: le proiezioni, misto di disegno, musica, informatica e naturalmente luce. Eccolo a trasformare il cortile del Palazzo Bevilacqua Ariosti di Bologna nel 2012 con una proiezione di forme luminose in toni verdi sui quattro lati. L’edificio scompariva smaterializzato, si era dentro a un universo sconosciuto, una percezione nuova, cangiante, pulsante. Per nulla virtuale. Ma è solo percezione, si potrebbe obiettare. Tutta l’arte è percezione. Dall’invenzione della prospettiva in avanti la pittura si è evoluta in senso illusionistico. Per fare un esempio.
L’orologio del tempo (2011) era un’altra grande proiezione con l’immagine di un orologio da spazio pubblico le cui lancette correvano all’impazzata mentre veniva disturbato e deformato al ritmo di una musica inquietante. E Hiperbolic Arguments (2013) era ispirata a un temporale con grosse nuvole e fulmini.
Così, per via delle proiezioni arriviamo a un nuovo capitolo del lavoro di Evangelisti. Il sacro.
Lux inaccessibilis fu un’opera indimenticabile. Sul retro dell’abside di San Domenico, a Bologna, veniva proiettata una croce luminosa che riprendeva le forme della croce di Giunta Pisano che è all’interno, dall’altro lato del muro. Era come l’antico crocifisso emanasse la sua luce attraverso la curva parete absidale, un passaggio, una pasqua. Ma la croce luminosa mutava in continuazione, mantenendo l’architettura, in forme e colore imprevedibili. La si poteva guardare all’infinito. Era un po’ come il mistero stesso di Dio, che si approccia in tante sfumature e non lo si afferra mai del tutto. E questo avvicinamento avviene attraverso la croce di Cristo.
Non ho mai parlato di religione con Nicola, non so con quale consapevolezza sia giunto a questo risultato. Ma so che l’opera d’arte, se è tale, si trova sempre a metà strada tra l’autore e il fruitore e che entrambi riversano del proprio sull’opera. Ebbene, io che la fede cristiana ce l’ho mi sono sentito rapito da queste pulsazioni proprio in quanto credente. Posso concludere solo una cosa, che Evangelisti, per le sue vie, ha toccato il mistero divino. Altrimenti mi avrebbe lasciato solo deluso come tante opere che poi vanno veramente nelle chiese e che non «connettono».
Sol invictus (2014) è la proiezione di un disco con il monogramma greco di Cristo, Chirò, attorniato da una corona di fuoco, o di luce, in perpetuo movimento. Chiunque nella cultura occidentale sa dare un significato a quest’opera. Ma il punto non è riuscire a decifrarla, ma lasciarsi trasportare dal suo linguaggio. Proiettata quella volta in un cortile industriale dismesso, pieno di grafiti e di sporcizia, stringeva il cuore.
Michele Dolz
Studi Cattolici 643, settembre 2014