Dal 2013 c’è un nuovo elemento che aiuta a cogliere la poetica di Edward Hopper. Un film, incredibilmente: Shirley. Visions of reality. Sotto la regia di Gustav Deutsch tredici quadri di Hopper prendono vita e raccontano di una donna che vive un segmento di storia americana. Un dialogo tra pittura e cinema. Grazie alla fotografia di Jerzy Palacz, Deutsch ricrea l’universo visivo ed emotivo di Hopper.
Molte volte si è cercato di trasformare un dipinto in fotografia, tableau vivant o pellicola, sempre nel tentativo di non venir meno al dettaglio descrittivo dell’opera originale. La stessa operazione fatta su Hopper rivela che per ricrearlo bisogna invece semplificare, scarnificare, ridurre all’essenziale pareti, mobilio, vestiario, forzare la luce e saturare i colori. Quindi, benché insistiamo nel parlare di realismo, Hopper intraprese un arduo lavoro di essenzializzazione, che in fondo poco ha di realistico.
Altro aspetto che si è sempre considerato e che il film mette in chiaro definitivamente è l’intrinseca cinematografia della narrazione hopperiana. Se l’avvento della fotografia segnò per sempre la pittura, dagli impressionisti in avanti, lo sviluppo artistico del cinema permise a Hopper d’inserire un elemento nuovo nel suo lirismo. Atmosfere sospese alla Hitchcock sono di casa nelle sue visioni.
La semplificazione di Hopper è un percorso che inizia nei suoi viaggi a Parigi tra il 1906 e il 1913. Presentare i piccoli dipinti di quei soggiorni è forse il maggior merito della mostra che si tiene a Bologna, a Palazzo Fava (catalogo Skira), con opere provenienti in gran parte dal Whitney Museum, che conserva l’eredità dell’artista. Va detto che non è una grande mostra. Di cinquantotto opere, quasi metà sono disegni. Quindici di questi pezzi furono già esposti a Palazzo Reale di Milano nel 2010. E mancano i quadri famosi (e migliori).
Comunque la mostra conferma alcune certezze sul pittore americano. La prima è la qualità dei suoi disegni, spessissimo superiore a quella della pittura. Egli lavorò come illustratore e questa vena non la perse mai. I suoi dipinti non si vergognano di essere un po’ illustrazioni. Non c’è motivo.
La seconda è il lavoro di sintesi cominciato a Parigi. Una poetica del dettaglio che veramente anticipa molta pittura occidentale. Il clima che assorbe è quello di un fauvismo moderato (alla Marquet, per intenderci) ma senza il coraggio di staccarsi del tutto dalla narrazione visiva. Tuttavia, pezzi come Notre Dame de Paris (1907) o Le Quai des Grands (1909) si avvicinano a una visione fatta di volumi e luci.
Pur mantenendo qualcosa di queste acquisizioni, il ritorno negli Stati Uniti lo riancora a un realismo descrittivo (terza certezza), dal quale, poco a poco, lo salverà il germe della semplificazione formale fino a portarlo alle grandi campiture che creano quelle atmosfere di silenzio e stabilità che lo hanno reso giustamente celebre.
La quarta certezza è patente a chi si intenda di pittura: brutta tecnica. È come se di un linguaggio ricco conoscesse poche parole e sintagmi. Ma da vero artista è stato capace di comporre con quello della toccante poesia.