La bambina bambola scoperta è incastrata nella sedia e legata in modo spaventoso e impossibile. Il pesante orso si riposa sulla sedia stessa, con i rozzi stivaloni alle gambe tozze e si specchia ebete sulo sgraziato mobiletto da toilette. Alcuni uccellini bianchi immacolati svolazzano attorno. Uno è stato schiacciato dallo scarpone della bestia, che ha scritto sul tavolino: se parli, riduco tua mamma tanto tanto male.
È un pugno in faccia, questa scultura, o installazione o tableau vivant, come la si voglia intendere. Una scossa dalla quale non si esce freddi. Ci parla dell’abuso sui minori, lo denuncia, lo esibisce nella sua brutalità. Fa indignare, arrabbiare, desiderare con tutto il cuore che queste cose non accadano più, e magari decidere d’impegnarsi per questo. Ma The Bear Chair, del 1991, non è un oggetto di propaganda. Una campagna contro la pedofilia avrebbe proposto delle immagini ben più addomesticate, in qualche modo belle. Qui di bello non c’è niente se non il nobilissimo intento dell’artista. La scultura è assemblata con pezzi di recupero, sproporzionati, rotti, incoerenti, e tenuta insieme da colle che nemmeno si nascondo, e riverniciata qua e là con dei colori scoccianti (quel blu irrequieto e stonato!) che sgocciolano dappertutto e più sembrano sporcizia che risorsa estetica. È l’antiestetica.
La mostra di Edward Kienholz alla Fondazione Prada di Milano va considerata tra gli avvenimenti artistici dell’anno. Per la prima volta vediamo un gran numero di sue installazioni insieme. Per molti è la prima conoscenza dell’artista. E quale artista. È riconosciuto pioniere già dal 1960 di qualcosa di nuovo che si venne a chiamare installation art oppure assemblage art. Ma le sue messe in scena sono pure precoci espressioni dell’arte concettuale.
Germano Celant, curatore della mostra e studioso dell’artista, scrive: «Sin dal 1957 Edward Kienholz tende a produrre un’arte di repulsione che esca da un ambito incontaminato e autoreferente, tipico dell’espressionismo astratto […]. Contrappone lo spettro dell’abiezione, attuata attraverso un immaginario realistico e concreto. Non sublima le bassezze e la tragicità del vivere, le condizioni di solitudine e di trivialità, ma le usa come strumenti per far risplendere l’universo basso e popolare, dove il macilento e lo sporco, il perverso e il lurido, rappresentano una bellezza nuova e sorprendente: quel sentire o percepire che stordisce ed emoziona, colpisce e fa vomitare, non lascia mai indifferenti. Le sue opere […] non imitano la realtà ma al contrario la trasgrediscono, per decomporla e renderla cruenta. Una rottura dei canoni dell’accettabile, nel senso formale e iconico, che fa saltare la duplicità e la mimesi pacifica e rassicurante dell’arte, per avviarla verso un’animalità primitiva e sbalorditiva […]. Lo spettatore che l’avvicina può certamente rifiutarla, tuttavia il suo aspetto realistico lo mette in una condizione di voyeurismo che ne provoca la partecipazione simpatetica o repulsiva, ma sempre attiva e condivisa: l’estraneo si fa personale».
Difficile dire meglio ciò che accade al visitatore. Di messe in scena ne abbiamo del genere viste tante in seguito, dalle figure iperrealiste di Duane Hanson fino a quelle maniacali di Ron Mueck o al manichino umanizzato e parlante di Goshka Macuga. Quelle di Kienholz vanno in senso opposto, sono quello che si potrebbe chiamare l’espressionismo dell’installazione.
Un disgusto analogo a quello dell’orso si percepisce davanti alla Nativity (1961), che non vuole essere blasfema bensì colpire la fatuità e perfino l’ambiguità di certi sentimenti religiosi superficiali. Oppure l’incomunicabilità che infastidisce guardando Bout Round Eleven (1982); i tremendi giocatori di biliardo del 1993 con maschere e corna di cervo. E quella che, a mio avviso, è l’opera migliore esposta: The Marry-Go-World or Begat by Chance and he Wonder Horse Trigger (1991-94), una vecchia giostra in cui si mescolano pezzi originali con animali impagliati ripugnanti e disuniti. Ha pure una complessa parte concettuale che qui sarebbe troppo lungo descrivere.
La grande installazione che viene proposta come opera portante della mostra, al punto da darle il titolo è Five Car Stud, tableau immenso che occupa un vasto ambiente ed è proprietà della Fondazione Prada. Mette in scena cinque automobili (vere) che in un paraggio appartato illuminano coi fari un gruppo di uomini mentre infliggono una «punizione esemplare» a un uomo di colore. Pare che si riferisca, come la maggior parte di questi lavori, a un fatto di cronaca, la vendetta su chi aveva abusato di una ragazza. Ma non è difficile fare il salto alle castrazioni culturali e sociali imposte a tanti da questo nostro mondo amorale. Impressionante per le sue dimensioni e per l’aspetto caricaturalmente feroce dei personaggi, non mi pare sia l’opera migliore, proprio in forza del formato dispersivo.
Edward Kienholz (1927-1994) fu autodidatta. Nel 1957 fondò con Walter Hopps la Ferus Gallery a Los Angeles. Nel 1961 incominciò la corsa alla fama, premio alla sua originalità e forza trainante. Finì presto nei più importanti musei d’arte contemporanea. A partire dal 1972 Edward Kienholz lavorò insieme alla moglie Nancy e firmarono insieme le opere col comune cognome. Morì nel 1994. Nancy ha collaborato nella cura di questa mostra.
Michele Dolz