Nel maggio 1896 Giovanni Segantini (il Grande) scese dalle sue montagne dove dipingeva quadri favolosi e incontrò lo scultore Paul Troubetzkoy, ormai affermato, rispettato, a volte temuto. Segantini (il Grande) voleva che gli facesse il ritratto e non si meravigliò della richiesta del collega, che voleva raffigurarlo a torso nudo. Ma che delusione! Segantini (il Grande) posò per diversi giorni, testimone dei successivi fallimenti dell’altro. Niente, la scultura non veniva o non soddisfaceva l’artista. Peccato. Segantini (il Grande) risolse di tornare, sconsolato, nel suo Maloja quando Troubetzkoy tutt’a un tratto lo vide: vestito, la barba incolta e i capelli scapigliati, le mani appoggiate al panciotto. «Fermati, fermati lì che ci sei!». E in due ore finì il ritratto, forse la sua opera più potente e certamente tra le migliori sculture della modernità. Segantini (il Grande) guarda di lato con una forza michelangiolesca, una potenza che si sprigiona da ogni sfaccettatura in questo volume plasmato con nervosa sicurezza. La luce riflette e si nasconde in ogni angolino, non c’è nulla di piatto né di scontato, è pura forza di vibrazione luminosa e materica.
Fosse solo per questo pezzo vale la pena un viaggio a Verbania per visitare il Museo del Paesaggio, che contiene la più ricca raccolta di opere di Paul Troubetzkoy, lascito dell’intero studio alla sua morte. Ma chi era Paul Troubetzkoy? Uno che si può ritenere in cima agli scultori della sua epoca, e non solo. Era figlio di un principe russo che dopo avere svolto attività diplomatica in Italia riparò a Pallanza per dedicarsi alla botanica. Il giovane Paul, insofferente alla scuola, era già convinto che bisognasse guardare la realtà, comprenderla e riprodurla. Diceva: «Il segreto dell’arte non sta nelle opere d’arte che, in quanto fatte, sono perfette e compiute, ma nell’osservazione diretta dal vero, che vive e si rinnova ogni istante». Non è perciò ascrivibile ad alcuna scuola artistica. E non fece nemmeno discepoli. Salvando quel che c’è da salvare, lo si può paragonare, per originalità e indipendenza, ad Antoni Gaudì, che gli era contemporaneo. La vita di Paul si svolge tra il 1866 e il 1938 sempre intorno al Lago Maggiore, ma con importanti periodi di lavoro e di mostre in Russia, Svezia, Finlandia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, e altri. È in rapporto con gli artisti e intellettuali del suo tempo, ritrae in continuazione personaggi famosi delle lettere, le arti e lo spettacolo. Troubetzkoy è artista ammirato, stimato, invidiato, a volte incompreso. In un concorso cui partecipava, i concorrenti protestavano dicendo: «Ma questa non è scultura»; e il presidente della giuria che lo premiò concluse: «Se non è scultura, è qualcosa di meglio».
Altra statua di potenza sovrumana è il monumento allo zar Alessandro III, morto nel 1894 in fama di grande sovrano. Nel ’99 su indetto un concorso internazionale per il monumento, che prevedeva lo zar seduto sul trono. Troubetzkoy modellò la figura prevista ma ne presentò anche una versione a cavallo su un piedistallo di roccia viva. Anche se la proposta esulava da quanto richiesto nel bando, la zarina madre, che presiedeva la giuria, volle e ottenne che venisse scelta. Paul si dedicò per anni a questo lavoro, tra mille difficoltà, con l’impegno di chi sta compiendo l’opera della sua vita. Viaggiò per mezza Europa fino a trovare un cavallo giusto, fece venire dall’Italia maestranze e fonditori. Il risultato è – perché il monumento ha superato le devastazioni comuniste – una figura di oltre cinque metri, cavallo muscoloso e fremente, piantato sulle quattro zampe e la testa piegata in basso che quasi lo si sente soffiare dalle narici; lo zar, di corporatura imponente, ben dritto sulla sella, con grandi stivaloni, colbacco e sciabola. «Mio scopo fu di rappresentare la forza e l’imperturbabile calma prodotte dalla coscienza che egli aveva di sé; tentai, e forse ci riuscii, di dare forma plastica alla magnifica energia di quell’anima». Anche oggi ci impressiona, noi che nulla abbiamo a che fare con la dinastia dei Romanov né con gli zar di tutte le Russie. Dove trovare tanta forza umana e civile che non scivoli nella retorica?
Se qualcosa Troubetzkoy non è mai è proprio retorico. Non gli sarebbe mancata l’occasione, amante com’era di raffigurare animali, bambini… Ci sono nel museo di Verbania due sculture che in modi diversi rappresentano una bambina che abbraccia un cane. Una di queste la portò alla Biennale di Venezia del 1897. Potevano essere puro zucchero e invece sono un distillato di tenerezza, di affetto, di abbandono, che ancora oggi commuove. Ma commuove la scultura in sé, non l’evocazione di un soggetto commovente. Primo Levi ne esaltava «la gentilezza più squisita dell’espressione estetica e la più fine profondità sentimentale».
Forte come il ritratto di Segantini (il Grande) è quello di Lev Tolstoj, del 1898. Fu l’anno in cui i due s’incontrarono e si legarono con fedele amicizia. Paul divenne vegetariano allo stile dell’amico letterato e spiritualista (e tristemente morì denutrito a causa dell’insostenibile dieta). Questo ritratto è tutto occhi e barba, che cade sopra quella sorta di saio che Tolstoj amava indossare. Oppure il ritratto a figura intera del principe Lev Galitzin (1900), grossa umanità seduta, o mezzo sdraiata su una poltroncina, che guarda verso l’orizzonte. Era costui un produttore di vino in Crimea che riforniva la casa reale. Troubetzkoy, con questa scultura, ricevette il Gran Prix all’Esposizione Universale di Parigi del 1900.
Si potrebbe continuare a evocare ritratti indimenticabili, monumenti famosi in diversi paesi, ma forse è meglio consigliare caldamente la visita al Museo del Paesaggio di Verbania: è difficile non essere catturati da tanta originale bellezza. Difficile anche evitare l’inesorabile domanda: Perché un artista del genere non è ben più noto e famoso? Misteri della storia. O della fortuna critica. A volte lo si accosta a Rodin, ma è una scappatoia facile, perché anche con Rodin ha poco da spartire. Per inquadrarlo occorre tornare alla grande scultura rinascimentale e antica.
Michele Dolz
in Studi Cattolici 700-701, giugno-luglio 2019