Se digitate su Google il nome di André Derain troverete una bella serie di quei dipinti coloratissimi, luminosissimi, di una bellezza lirica travolgente del periodo fauve. È un giusto riconoscimento, perché Derain fu insieme a Matisse il fautore del movimento e il suo miglior interprete.
Il battesimo dei fauve si tenne a Parigi nel 1905, lo stesso anno della prima vera mostra di Van Gogh a quindici anni dalla sua morte. I fauve, coscienti o no, avevano portato alle ultime conseguenze la semplificazione e il colorismo dell’ultimo Van Gogh. Si apriva una via promettente per la pittura, in continuità e in rinnovamento. Contemporaneamente in Germania gli artisti di Die Brücke intraprendevano un percorso analogo. Erano le avanguardie, mentre il resto dei pittori si cullava in un postimpressionismo di genere e il grande Picasso andava per la sua strada nei famosi periodi blu e rosa.
Ma nel 1907 Picasso presentò Les Demoiselles d’Avignon, opera mozzafiato, sconvolgente coi suoi germi di cubismo e primitivismo. Picasso aveva cambiato rotta, ma l’effetto fu talmente dirompente da far sentire i fauve obsoleti. E così una delle migliori invenzioni della storia della pittura durò appena due anni.
È interessante seguire quegli artisti nel dopofauvismo. Il percorso più coerente è quello di Matisse, che trae sempre linfa da una poetica sua propria. Vlaminck virò verso una tavolozza oscura e sgraziata. Dufy inventò un suo stile un po’ illustrativo. Manguin, Camoin e Marquet si limitarono a smorzare i colori, adattandosi a un linguaggio diciamo commerciale. Braque prese subito la via del cubismo. E poi venne la prima guerra mondiale che azzerò tutto.
E che ne fu di André Derain? Questa domanda è recente, solo negli ultimi decenni ci si è resi cono della qualità, dell’influenza che ebbe fino alla sua morte nel 1954, e gli sono stati dedicati studi e mostre. L’ultima è ora aperta a Museo d’Arte di Mendrisio (dopo il lungo rinvio causa virus) dal promettente sottotitolo Sperimentatore controcorrente. Ed è cosa che altri grandi artisti gli riconoscevano. Ecco che cosa scriveva di lui Alberto Giacometti: «Uscendo dalla mostra di Derain al Musée d’Art Moderne nel 1954 — che non solo era stata la conferma di tutto ciò che pensavo del suo lavoro, ma che mi aveva dato anche molte cose nuove e riempito d’emozione — in omaggio a lui ho realizzato due incisioni. Dal giorno (potrei dire persino qual era il minuto esatto di quel giorno del 1936) in cui una tela di Derain, vista per caso in una galleria, mi ha fermato, ecco da quel momento in poi ogni suo quadro, senza eccezioni, mi ha obbligato a fermarmi, costretto a un lungo sguardo in cerca di ciò che stava al di là. Derain è il pittore che mi appassiona di più, colui che più mi ha dato e insegnato dopo Cézanne; per me è il più coraggioso».
Lo stesso era accaduto tra gli artisti italiani, che lo consideravano, con Picasso e Matisse, una delle tre colonne dell’arte moderna. Carlo Carrà scrisse una monografia e un lungo articolo su di lui nel 1921: «Non possiamo non applaudire agli sforzi nobilissimi per rimettere in funzione una più sana concezione dell’arte, e fra questi annoveriamo volentieri André Derain come uno dei maggiori operai della rinascita. Non si può negare la dura energia e la robustezza che egli pone in quei suoi movimenti immobilizzati ed esangui, in quelle masse apparentemente senza calore e senza alito. Per quello che riguarda la tanto dibattuta questione della cromia, si potrebbe osservare che egli costituisce la più plausibile protesta contro l’ebrietà cromatica». Anche De Chirico lo commemorò: «Essendo stato egli un vero artista, dotato di un autentico temperamento e di un’autentica intelligenza di pittore, anche nelle opere della sua prima maniera produsse pitture oltremodo interessanti, come per esempio il suo Autoritratto con la pipa di gesso del 1914 e il suo famoso Ritratto di chitarrista spagnolo. Intuì che la pittura nel suo vero ed eterno senso è soprattutto un fatto di eccellenza plastica e di superiori qualità della materia».
E nel 1931 Gino Severini: «Egli conosce l’Italia e vi ha dipinto. Alcuni dei suoi paesaggi romani sono impregnati dell’emozione provata da questo grande artista davanti alla grazia solenne della campagna. Non c’è da stupirsi se molti pittori italiani hanno subito l’influenza di questo grande pittore transalpino».
Si potrebbe continuare, ma ormai è sufficientemente documentata l’influenza di Derain sui pittori italiani della prima metà del secolo.
Vedere questo processo nella mostra di Mendrisio è un’emozione. Un paesaggetto del 1909 di echi cézanniani, un altro del 1911 che ricorda i paesaggi cubisti di Picasso, delle nature morte un po’ incerte… fino allo stupendo ritratto dell’artista spagnolo Francisco Nicolás Iturrino González, che è al polo opposto rispetto ai dipinti fauve: tavolozza terrosa, forme ben marcate fino alla durezza, nessuna gioia.
Derain è ritenuto fautore anche del «ritorno all’ordine», una nuova visione dopo la devastazione della guerra che mirava al recupero della classicità e che segnò gli anni Venti. Anche Picasso vi si adeguò. In mostra ci sono alcuni paesaggi del 1930 veramente toccanti nella loro serena e composta luminosità e semplicità. È questo periodo, tra i Venti e i Trenta, il vero focus della rassegna. Notevolissimi i nudi e certe nature morte di grande formato e cromatismo ancora terreo che hanno alle spalle la grande pittura del Seicento. I ritratti del periodo sono singolari: pennellata nuda, luce dorata, frontalità ma con sguardo obliquo. Più classici e commossi, i disegni di figura. Un foglio con Arlequin e Pierrot ci rimanda allo stupendo dipinto dello stesso soggetto, del 1924, caposaldo del ritorno all’ordine, oggi all’Orangerie e assente in mostra.
La serie meno nota e più interessante è quella delle piccole tele di bagnanti, che inizia negli anni Trenta e tocca vertici insolitamente moderni nei Cinquanta. Non è difficile scoprire in essi tante istanze della pittura di oggi.
Tuttavia, guardando questi dipinti, queste sculture e questi studi per teatro si ha l’impressione di un percorso erratico, forse disorientato, come incompiuto. Gertrude Stein scrisse che Derain fu il precursore di tutto ma incapace di trarre le conseguenze delle sue intuizioni. Forse. Ma a questo punto ci si domanda chi fosse l’uomo André Derain. C’è in catalogo un saggio chiarificatore di Michel Charzat, il suo biografo per antonomasia. «Derain è troppo volubile, troppo paradossale. Avanza nell’esistenza con indosso una maschera. Si fatica a cogliere il personaggio interiore. E poco si sa, o per ragioni sbagliate, dell’uomo che fu. La comprensione delle sue opere ne risente». Ma quel poco che si sa è che aveva un temperamento malinconico con momenti maniacali, che leggeva i pensatori come Stimer, Scheling, Schopenhauer, Nietzche; che era consumato dal dubbio; che aiutava segretamente e generosamente degli artisti in difficoltà, che ospitava in casa i parenti bisognosi; che studiava l’alchimia, praticava le arti divinatorie, leggeva la Cabala; che era affascinato dai miti, che non era credente. Tutto ciò ne faceva una persona stimolante, ma rende anche ragione di quel senso di confusione che si avverte nella sua opera.
Eppure, quei quarant’anni controcorrente, afferrato al modello classico, equivalgono esplicitamente a una concezione universale e atemporale della pittura, alla convinzione che l’arte vera è sempre contemporanea. E questa è una verità importante. La pittura è pittura.
Michele Dolz