IL RITORNO DELLE LUCCIOLE
Michele Dolz
Ho conosciuto Gian Maria Tosatti nel 2016, quando teneva una mostra a Roma presso ZooZone Art Forum. Tutto lì era singolare: il piccolo spazio, le opere esposte (testi dattiloscritti incorniciati) e il personaggio stesso, che mentre parlavamo bevve un intero cartone di succo di frutta. Ma ci siamo intesi subito e quel pomeriggio siamo diventati amici. Da allora è andato avanti uno scambio di pareri in crescente concordanza, malgrado fisicamente distanti. L’ultimo è di alcuni giorni fa:
«Caro Gian Maria, ho aspettato fino adesso a scriverti perché ti ho immaginato pieno di richieste di ogni tipo e di lavoro. A Venezia non sono ancora andato ma ho visto e letto tutto quel che ho trovato sulla tua installazione. Hai superato te stesso! Che cosa meravigliosa…
Se un giorno riusciremo a parlare ti esporrò l’idea dell’arte che a cui penso molto ultimamente: non è più tempo di giochini e ideuzze, o si fa qualcosa di grande o è meglio tacere e uscire da questa cacofonia di talenti mediocri. Per grande non intendo solo il formato (anche) ma la forza vitale che i nostri predecessori ci hanno lasciato.
No voglio tediarti, speriamo in un tuo viaggio a Milano o uno mio a Roma (entrambi facili e possibili).
Un caro abbraccio, Michele»
Risposta:
«Ciao Michele, Cerca di andare a Venezia, anche in giornata. Le immagini, i video, non rendono minimamente l’opera. Spero tu riesca e possa darmi le tue impressioni a partire dall’esperienza fisica.
Hai ragione, sono sepolto vivo dal lavoro, ma più per la Quadriennale che per l’arte.
Tu stai bene? Sarei felice di fare una chiacchierata con te. Forse da ottobre sarò un po’ più libero. Vedremo.
Sono molto d’accordo con quello che mi dici. Non è tempo per gli esercizi. È il tempo delle responsabilità, anche nell’arte. Un tempo crudele, ma un tempo di verità.
Intanto ti ringrazio per quel che mi hai scritto. E spero di avere occasione di incontrarti presto.
Gian Maria».
A Venezia ci sono andato subito. L’amicizia è un impegno serio che va onorato sempre. Ma oltretutto aveva assolutamente ragione. Pur conoscendo l’opera, pur avendo studiato il catalogo, entrare in quegli spazi è un’altra dimensione. Quella giusta. Per questo Tosatti e il curatore Eugenio Viola ripetono insistentemente che queste sono opere da esperire. L’opera la compie il visitatore immergendosi in questi ambienti.
Di che cosa stiamo parlando? Tosatti ha scelto una via ardua e faticosa, le installazioni ambientali. Si tratta sempre di lavori di vaste dimensioni. Le sette stagioni dello spirito erano una serie d’installazioni in vari luoghi di Napoli tra il 2013 e il 2016. Per illustrare l’idea, l’ultima di queste, intitolata Terra dell’ultimo cielo era una chiesetta non solo sconsacrata ma molto malridotta, che l’artista riempì di terra e vi «piantò» degli alberi da frutto sui quali riposavamo colorati uccellini. Indimenticabile. Oltre alla bellezza in sé, era una meditazione sulla morte e la rinascita, ma era anche una ricerca dell’identità che portava il visitatore molto molto lontano: chi siamo noi, in fondo, dove stiamo andando?
Più recente è il progetto Il mio cuore è vuoto come uno specchio, ancora in corso, che ha visto l’installazione riproposta e ripensata in quelli che l’artista chiama «episodi»: Catania, Riga, Città del Capo, Odessa, Istambul.
Un intero edifico abbandonato viene allestito con mobilio e oggetti di «dignitosa povertà», ma povertà, emarginazione forse. Percorrendo questi spazi ci si sente scossi. Ma non col facile senso di colpa di certe pubblicità umanitarie («non stai facendo niente per queste persone»), è come guardarsi allo specchio (Il mio cuore è vuoto come uno specchio) e scoprirsi più brutto o più malato.
«La mia carriera non nasce in un’accademia, ma all’interno di un edificio occupato da un gruppo di intellettuali, per far fronte all’emergenza abitativa di famiglie povere e famiglie migranti nella Roma dei primi anni 2000. Iniziai a costruire installazione site specific, perché, oltre all’esigenza di far fronte all’emergenza immediata di chi si trovava senza una casa, c’era la necessità di affrontare l’emergenza culturale in cui si trovano tutte le classi disagiate. Questo mi ha fatto scoprire un ruolo completamente nuovo per l’artista rispetto a quello che conoscevo».
È la dimensione politica, nel senso più alto e umano del termine, che Tosatti vorrebbe suscitare nei suoi visitatori. «Negli anni della mia formazione, è passato il messaggio – soprattutto in Italia – che l’artista fosse una specie di giullare di corte, un estroso decoratore, una figura relativamente leggera. Era tutto in linea con una strategia della narcosi».
Ora possiamo entrare nell’Arsenale e vedere l’opera. Invitato come unico artista a rappresentare l’Italia in Biennale, ha avuto a disposizione tre enormi spazi. Ai grandi ambienti era abituato, non così grandi però. E dopo aver trovato il coraggio, e in seguito un titolo, Storia della notte e destino delle comete, che ammetto di non capire, è venuta la progettazione, l’ora dell’artista. Si trattava di evocare la fine del boom industriale italiano, che ha portato ricchezza ma ci ha lasciato un mondo deteriorato. Ed ecco Tosatti girare l’Italia alla ricerca di materiali: «Stabilimenti chiusi, falliti, altri in attività, altri ancora addirittura smontati, come l’Italsider. Abbiamo raccolto le storie di chi ci ha condotti lì. Dei custodi della dismissione o degli operai che ancora producono, dei vecchi proprietari rimasti a lavorare come operai dopo aver venduto la fabbrica a una multinazionale, o dei figli che hanno dovuto liquidare il sogno dei padri».
All’Arsenale troviamo dei macchinari derelitti, non importa quanto coerenti tra di loro. Un piccolo dormitorio all’interno della fabbrica, con la vecchia carta da parati, le marmette, l’alone dei quadri che non ci sono più e la fioca luce elettrica. Un altro ambiente è ordinatamente ingombro di macchine da cucire con la luce accesa e i rocchetti, che sembra abbandonata da poco. Non è piacevole tutto questo, è piuttosto un pugno in pancia, forse nella pancia molle di gente distratta. Pensavo ai versi, altrettanto indimenticabili di Eliot:
Che radici premono, quali rami crescono
Da questi resti in pietra? Figlio dell’uomo,
Tu, non puoi dire o pensare, perché tu sai solo
Di un mucchio d’immagini rotte, dove batte il sole,
Dove l’albero morto non ripara, il grillo non conforta,
E la pietra riarsa non dà suono d’acqua.
Con questi resti ho alzato argini
Alle mie rovine.
Cosa ci è rimasto? E a quale scopo? «Quella» industria è finita, con la sua cosmovisione. Alcuni dicono che la nostra epoca sarà ricordata in futuro come l’era dello schermo. Può darsi, fa anche ridere vederci così, incapaci come siamo di alcuna preveggenza. Eppure Tosatti dice: «Tutto quello che accade nei miei lavori, avviene nel futuro, talvolta nel presente. Raramente mostro il passato. Il passato, d’altra parte, è risolto e non ha bisogno di me. Ma nessun futuro o nessun presente si dà senza la sua storia. In questo padiglione mostriamo ancora una volta un futuro prossimo».
E così l’ultimo ambiente è una poetica apertura alla speranza. Aldilà della sua sconfortante bellezza. Un ambiente oscuro, pieno d’acqua. In fondo, nel buio, scintillano intermittenti delle luci minuscole, e si pensa subito alle lucciole. A me bastava così, come alla maggior parte dei visitatori. Ora, l’artista ha voluto esplicitare il senso e la storia di quest’opera. Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1975 un duro articolo nel quale annunciava la morte delle lucciole, vittime degli impianti industriali. Questi non ci sono più e le lucciole sono tornate, almeno nell’installazione di Tosatti.
Si esce un po’ turbati. Suppongo che sia quel che voleva l’artista. «Attraverso le opere capiamo le nostre colpe, vediamo la nostra ombra sul volto dell’altro, e questo ci diventa insopportabile, perché l’uomo, in fondo, sotto le mille corazze, le mille cicatrici, è buono. Le opere affondano una lama nella dura pelle, fino a raggiungere la nostra purezza. E il gesto che l’artista chiede al visitatore è il coraggio di mantenere aperta questa ferita».
Non resisto alla voglia di trascrivere, per ultime, queste altre sue parole: il problema di noi che viviamo in questo tempo storico e la viltà, che si esprime nel non credere più a nulla, nella disillusione. L’uomo che non crede nella verità è un uomo che ha fallito, che non ha orizzonte. È un uomo già morto. Gli artisti sono un ordine antico. Quest’ordine e alla verità che è devoto. La verità è il nostro dovere di ferro».
Gian Maria Tosatti non è un artista che fa il filosofo né un filosofo che fa l’artista. È un artista nel senso più pieno, perché l’arte è una cosa seria, è una questione di vita o di morte.