MICHELE DOLZ. LA MEMORIA E L’ESSERE
Elena Pontiggia
La memoria, che dà il titolo a questa mostra di Michele Dolz, è qualcosa di diverso dal ricordo. “Ricordare”, dal latino “cor”, ha a che fare col cuore. “Memoria”, dal greco “mimnesco”, indica invece un'azione della mente. Mnemosine, nella mitologia classica, è la sua personificazione e, non a caso, è la madre delle Muse perché l’arte, come diceva Derain, “è ancora e sempre la memoria delle generazioni”.
Certo, cuore e intelletto non vanno separati rigidamente: si intersecano e si riflettono l’uno nell’altro. Eppure è la memoria, non il ricordo, che ispira la pittura e l'opera concettuale di Dolz (Castellon, 1954), un artista spagnolo che ormai vive in Italia da quasi mezzo secolo. La sua non è una rievocazione sentimentale, venata magari di una nostalgia che, come ogni nostalgia, è a rischio di edulcorazioni, se non di retorica. E’ invece un'operazione mentale che si propone di non dimenticare la fisionomia dei paesaggi che si sono susseguiti nei secoli, e nemmeno “l'umanità senza nome” (l'espressione è di Walter Benjamin) che ci ha preceduti e che nessuno, tranne Dio, conosce più.
I paesaggi di Dolz non sono abitati dall'uomo, ma lo presuppongono. Vedendoli si capisce che l'uomo li ha misurati, li ha percorsi, li ha coltivati col suo lavoro, seminandoli, arandoli e raccogliendone i frutti. Le linee che nei suoi quadri attraversano il terreno (e che infondono un sottile ritmo in una stesura materica capace di riannodare un dialogo con l'informale) sono i segni della presenza umana. Dolz dipinge paesaggi senza tempo: forse i suoi campi sono stati coltivati dai nostri bisnonni contadini, forse dai contadini di Ulisse. Non sono paesaggi veri, ma archetipi della terra e del cielo che la lambisce. Quei solchi, insomma, sono come le circonferenze nei tronchi degli alberi, che ogni anno aumentano (“anelli di accrescimento annuale” è il burocratico nome che danno a quei cerchi gli scienziati): dicono di un tempo passato, ma di cui è rimasta l’eco di un’operosità senza gloria, eppure preziosa.
Nell'Intervallo, il titolo che l’artista ha dato al suo ultimo ciclo di fotografie, avviene qualcosa di simile. Dolz cerca sulle bancarelle, nelle librerie in disuso, nelle botteghe dei trovarobe (tutti luoghi lontani dal mainstream della fotografia di moda) e trova immagini di uomini e donne che hanno vissuto in un'epoca imprecisata di un passato non troppo lontano, mostrandoceli in tutta la loro naturalezza. Insieme queste figure, raggiunte da qualche macchia o pennellata, formano un mosaico quasi pittorico. I loro volti, le loro espressioni, il colore indefinito e sobrio delle fotografie suscitano una singolare suggestione.
Sappiamo che quegli uomini e quelle donne non ci sono più, ma è come se fossero ancora insieme a noi. C'è, in quegli scatti di un autore sconosciuto, qualcosa che sentiamo familiare e che ci assomiglia. Forse perché quelle persone sembrano ancora vive. Forse perché sono ancora vive. E l’artista, con una razionalità partecipe, ne custodisce la fisionomia, ne archivia il volto, ne registra l’impronta.
Nel lavoro di Dolz non c'è la malinconia inesorabile di Emily Dickinson, la grande poetessa americana che scrive: “Questa polvere quieta/ fu signori e signore/ e giovani e fanciulle/ fu riso, arte e sospiro […] Poi anch'essi ebbero fine”.
Qui, nelle sue opere, non c'è una polvere che non si muove più, ma una vita di cui non sappiamo nulla, ma intuiamo l’essenziale: che quella vita continua ancora. Il suo Intermezzo, allora, è un lavoro concettuale non solo perché accanto alla pittura adotta altri linguaggi, ma perché ci spinge a una considerazione della morte che si vena anche di speranza. La memoria non è solo rievocazione del passato, ma anche presentimento del futuro. Questo dicono quei volti silenziosi, senza apparente funzione o scopo, ma sul punto di rivelarci quello che sanno, e che è l’unica cosa che conta. Come nel verso di Sereni: “Non dubitare… parleranno”.