«Sono cresciuto con la matita in mano, disegnavo e copiavo tutto. Non ho frequentato l’Accademia. Due lauree e un dottorato in Storia dell'arte potevano bastare». Michele Dolz è un sacerdote spagnolo di 61 anni che, a 22 è venuto in Italia e ha deciso di restarci. Dal 1976, infatti, si divide tra Milano e Roma. Vive nel capoluogo lombardo e insegna nella Capitale: alla Pontificia Università. La sua tavolozza richiama da una parte l'Informale degli anni Sessanta e dall’altra una figurazione che punta su reperti museali. Dolz è nato a Castellón. Da piccolo, i suoi lo portavano sulla collina della Magdalena, a qualche chilometro dal paese natale, dove egli poteva giocare con i resti di quello che una volta era stato un luogo abitato. Nel 1995, la sua prima mostra. I ricordi prendono corpo; e ai ricordi si affiancano resti, fossili, ma soprattutto paesaggi che «diventeranno la mia ossessione». Poi man mano vengono sostituiti da animali — come fossero dipinti su pareti di antiche grotte — e altre figure cui dare nuova vita. Già, perché Dolz è una sorta di archeologo che ama scandagliare i secoli e, quindi, la sua pittura si esprime attraverso segni e simboli. Adesso l’artista iberico si ripropone a Milano (Galleria Ostrakon di via Pastrengo 15, sino al 31 ottobre) con una quindicina di lavori degli ultimi due anni, presentato da Giorgio Severo, in cui, come avrebbe detto Carlo Bo, è «rimasto fedele alle sue ragioni iniziali».
Sebastiano Grasso