«Pittura nuda»: ne ragionavo anni fa, era il 1998, quando mi trovai perla prima volta davanti alle tele di Michele Dolz e dovetti fare i conti con l’arroganza di un colore che osava fino al quasi nulla del bianco, su cui la superficie cromatica lentamente tesseva una carne non ancora compiutamente espulsa dal tempo gestativo, legata ancora al grembo del tempo che la nutre eppure più pura e più forte di quel sangue. Mi colpì quella naturalità con cui le forme crescevano sulle tele trovando equilibri che si sentivano bloccati in una fermezza inquietante perché non umana; di un regno, forse, separato dalla natura, in una costanza di luce, senza ciclo, senza variazioni climatiche, da laboratorio alchemico, dove la forma veniva colta qualche istante prima del parto (del suo paradossale «venire alla luce»). Alla distanza, con le «Creatures» allestite alla Galleria Ostrakon di Milano dal 12 al 31 ottobre scorso, Dolz riconferma per questa «pittura nuda» la necessità gestativa di quel «lento impulso che forma l’immagine, che addensa o diluisce a poco a poco i contorni e le sagome» – come scrive Giorgio Seveso nel testo critico che accompagna la mostra –, ancora una volta con una luce gravida di forme che pare uscita dalla colluttazione con la «notte oscura» dove la vista non è però, sorprendentemente, l’ultimo dei sensi adeguato a discernere il palpito della vita, o almeno quel che ne resta, la sua reliquia fossile, la cui terribilità risuona tale perché la sentiamo certamente più prossima ai corpi evaporati di Hiroshima che ai mitici rituali di Lascaux. Ancora una volta (per quanto questa volta portando l’incandescenza su un piano più visibile, meno prossimo al «calor bianco») questa forma riporta lo sguardo ad abituarsi lentamente, nell’accecamento stroboscopico in cui reale è quel che appare, a percepire quel che siamo attraverso un inventario di forme che non ci «rappresentano», ma ridestano in noi la nostalgia di una originarietà perduta e che possiamo di nuovo far nostra: come in quegli albori del mondo, dando a ogni creatura il suo nome.
Andrea Beolchi