Sei domande a Michele Dolz

DC. Il titolo della mostra non lascia dubbi ed è come volesse suggerire una conversazione sullo spirito perché è il silenzio che sembra portare direttamente all’interiorità. La tua risposta viene forse da una pittura vicina alle frontiere del silenzio interiore, quello che trascende i sensi stessi.

 

MD. È abbastanza vero. I miei dipinti non raffigurano esattamente qualcosa ma non sono nemmeno astrazioni. Io li vedo come una sorta di sguardo perso, quel modo di guardare senza guardare mentre la mente e le emozioni sono un po’ lì e un po’ altrove.

 

DC. Per tua stessa ammissione, nel  lungo percorso della tua pittura hai sempre sostenuto  l’importanza  di educare e coltivare lo sguardo. Intendi il vedere come una delle vie maestre per la conoscenza?

 

MD. Tutti notiamo che dei cinque sensi, per l’uomo, è la vista quello determinante. Pensiamo per immagini. E vediamo attraverso il filtro di quel ci portiamo dentro. Perciò quando dico di educare lo sguardo intendo un arricchimento complessivo dell’uomo. La frequentazione delle arti ingentilisce, senz’altro, ma funziona anche al contrario: una persona bella dentro coglie la bellezza profonda dove essa è. Mi stupisce sempre il modo di guardare dei bambini.

 

DC. In questo periodo stai esplorando una bidimensionalità che definirei «estesa» perché non solo riferita al terreno dell’illusione prospettica ma anche madre di inquadrature  fotografiche, cioè prodotte dalla macchina per le immagini che è forse il paradigma della sensibilità visiva moderna. Che rapporto hai con l’immagine fotografica?

 

MD. Come dici, l’immagine fotografica determina da oltre cent’anni il nostro modo di vedere. Oggi addirittura mi sembra che abbiamo una sorta di «Photoshop» in testa che ci permette di modificare mentalmente le visioni. Questo era impossibile vent’anni fa. Ciò che è su queste tele è stato in qualche stadio precedente una foto, mia o perfino ritagliata da una rivista o scaricata da Internet.

 

 

DC. La tua pittura è dinamica, vorticosa, quasi muscolare eppure congelata da una composizione che mette in equilibrio le masse sulla superficie.

 

MD. Non ho molto tempo per dipingere e quando ci riesco arrivo così carico da aggredire la tela. Ma c’è anche un esplicito riferimento alla pittura gestuale, dalla Scuola di New York fino all’ultimo Schifano, passando per il Neoespressionismo tedesco degli anni Ottanta, che ho molto amato. Tuttavia non mi sento assimilato a nessuna di queste correnti come a nessun’altra.

 

DC. Si potrebbe dire che la tua pittura sia quasi scrittura, intesa nel senso di tracciare ostinatamente segni distinti su una superficie. Che rapporto hai con il gesto?

 

MD. Non ho mai avuto tendenza calligrafiche e non amo la pittura di quel genere. Pur avendo frequentato alcuni artisti giapponesi, sono rimasto sempre insensibile al loro «compitare». Invece provo emozioni profonde dinnanzi a molte tele di Pollock – l’ho già detto – come alle tremende impronte di Barcelò o, andando indietro, alle stratificazioni di Rouault, sacro o profano che sia. Conosco e stimo artisti che oggi lavorano sul gesto:  Sam Gabai, ad esempio. Mi sembra che il segno, il gesto di lasciare una traccia sia profondamente umano e abbia un valore espressivo in se stesso anche quando non pretende di raffigurare alcunché.

 

DC. Sembra che tu abbia necessità del rapporto fisico con la tela. Una necessità di attrito tra le setole pregne di materia-colore e la trama del tessuto. Pensi che queste sensazioni, che io credo antichissime, possano in qualche modo ricordarci le radici millenarie della pratica pittorica?

 

MD. Non sono io a dirlo, ma le figure preistoriche delle caverne. Tutto il Novecento è stato una sorta di riflessione sul primitivo, che mi sembra ancora incompiuta. Da un altro punto di vista, Picasso diceva di aver speso una vita per imparare a dipingere come un bambino. Io adoro Picasso, ma credo che a dipingere come un bambino non ci sia arrivato, la sua arte, alla fine, è sempre cervellotica. Quando un artista saprà fare uno scarabocchio con la stessa freschezza con cui lo fa un bambino, quel giorno sarà rinata la pittura.