Ricordo una battuta di Degas sull’impressionismo: «C’est plein de courants d’air». Intendeva dire che all’en plein air preferiva il chiuso del proprio studio, la luce opaca che filtrava dai finestroni quasi mai lavati dell’atelier. Una garanzia di «verità», la verità della propria memoria. Quel precipitato che resta quando hai dimenticato tutto quello che sai della realtà. E per capire questa «clausura» devo riferirmi ancora a Degas, a quando, viaggiando nella Borgogna in compagnia dell’amico Bartholomé, schizzava quei paesaggi, «pezzi unici» in un’opera vasta e prolifica di dipinti, disegni e sculture d’altro soggetto, e raccontava poi di aver avuto come «cornice» dello sguardo il finestrino del treno in movimento.
Perché penso a questo, davanti ai quadri di Michele Dolz? Forse, perché so di guardare «paesaggi». Lo so? Posso dire di saperlo, allo stesso modo in cui Andrea Beolchi, nel catalogo, scorge prospettiva estrema: qual è il limite che ne detta la radicalità? La dissoluzione della gabbia prospettica, oppure la costruzione visiva fatta soltanto di forme pittoriche? Degas pensava alla memoria come a una traccia superstite, una sorta di solco mnestico, un distillato della storia messo alla prova della realtà, che emergeva sulla retina dopo una costruzione lenta, provata e riprovata, processuale vorrei dire, nel senso che a uno stadio ultimo, quello che vediamo sulla tela, corrispondono dei gradi non di evoluzione, ma di estrinsecazione di quella forma depositata nel profondo. Chi entrava nell’atelier del pittore francese poteva trovare una «sequenza» di opere in lavorazione, stadi diversi di trasfigurazione di uno stesso tema pittorico.
Dolz ha esposto in maggio alcune opere a Milano, nella chiesetta dell’Antico Oratorio della Passione a Sant’Ambrogio. In questi dipinti, talvolta di ampie dimensioni, domina il paesaggio. Una realtà metabolizzata, fatta propria; ci troviamo nel campo della risonanza, di una pittura timbrica al pari di certa musica dodecafonica, che dalla dissonanza cromatica pura fa risaltare lo scheletro dell’immagine. Una cosa è certa: Dolz usa l’interiorità come crogiolo entro cui il pigmento si scioglie; e nel fuoco l’immagine del mondo si purifica dalle scorie che ancora denotano la categoria del reale. Il paesaggio visto non è, comunque, il paesaggio dipinto. Per questo, la pittura di Dolz è oltre la natura; è assunzione della forma nel gesto umano che tesse sulla tela l’architettura della visione. Si sente la mediazione da certa pittura neoespressionista, ma la ricerca di un equilibrio interno rimanda immediatamente al controllo sulla forma che è l’habitus del mediterraneo europeo. Non, certamente, realizzazione della natura, intesa come distillato e sintesi di bellezza neoclassica oppure come mito romantico dell’origine; l’actus brucia anche le scorie della cultura, o, meglio, di quel dissidio delle categorie estetiche che incapsula ogni novità nel giogo della «ripetizione differente». Sono forme del paesaggio, quelle che vediamo, ma non è fenomenologico il loro significato, non è una riorganizzazione del reale secondo categorie intellettualistiche; mi piace pensare che, alla fine, il paesaggio, ben più che un tema o un «genere», sia per Dolz la strada più diretta per arrivare alla archetipicità della forma, alla sua «totalità», che è l’unica possibilità attuale di interpretare il simbolo nella sua qualità generativa. Non sistema dei segni, ma symbolon, ovvero ferita metafisica che rimanda nella sua essenza al tutto che era. Oltre la felicità del colore, che pure si percepisce davanti all’opera, la luce totale in cui ci si trova avvolti è, piuttosto, una radiazione, una deflagrazione cromatica che, liberandosi, svela il tragico custodito dalla forma che «entra nel mondo».
Maurizio Cecchetti