Abbiano imparato a stordirci di tanti libri e abbiamo dimenticato come leggere una luce, la ruga di un volto: mi ha impressionato, quell’annotazione di Guido Ceronetti. per la sua disadorna verità; soprattutto perché trovo in quelle parole un segnale di solidarietà nella fatica di porre al centro la «visione», radice sepolta non solo per la pittura ma per l’intero spettro dell’arte: questa solo la riporta a un’unità con la vita dell’uomo che altrimenti, per via di cultura, sarebbe oggi dispersa. La pittura di Michele Dolz mi porta per questa via. La parola prima sui lavori che compongono questa mostra ha infatti a che fare proprio con la «pittura nuda»: voglio dire, non con un certo nodello formale, con una messa in catalogo tra i generi i modi o le mode della pittura, ma con una disposizione dello sguardo sulle cose. Lo dico per la rilevanza che in questi lavori assume quella certa arroganza del colore — che ha le specie tradizionali, e la lentezza dell’olio, ma lo «sgarbo» della crudezza superficiale, esuberante., impossibile dei soldatini che si trovano nei fustini di detersivo., o di quei pupazzi che «il Mac» riserva in omaggio ai bambini — che osa fino al quasi nulla del bianco e che tradisce la superficie cromatica come carne — carne purissima — non ancora compiutamente espulsa dal tempo gestativo, legata ancora al grembo del tempo che la nutre eppure più pura e più forte di quel sangue. Ma la pittura non è la sottigliezza cromatica. Lo dico anche per quella certa naturalità con cui le forme crescono, trovando equilibri che si sentono bloccati in una fermezza inquietante perché non umana; di un regno, forse, separato della natura. Ma la pittura non è la naturalità. Lo dico per la necessità di legame che su queste tele si percepisce con quelli che nell’arte del secolo, dopo Cézanne, sono i capisaldi incarnati dai profeti della luce, dell’autonomia del colore, della forma pura. Ma la pittura non è la storia. Lo dico, definitivamente, per quel che mette in campo sul terreno della visione. La cui materia è l’esteriore, e l’occhio ne è la forma; visione dunque come forma umana di quanto sta al di là dell’occhio, dove l’occhio è metafora che esprime un terzo stato tra una realtà compiutamente terrestre e una sua inesprimibile tensione a passare il confine; terra di mezzo tra il dentro e il fuori, tra la cosa e il suo significato; terra del senso che segnando i confini del corpo — precisandolo fino al delirio esatto e facendogli sentire la finitudine come sola condizione compatibile ai sensi — lo porta oltreconfine, e ne fa costitutivi la terra e il cielo, i rumori e i silenzi della città, lo spazio dell’aria gravido di forma. Tutto quanto osmoticamente passa i limiti del corpo è corpo, perché tutto il visibile che passa per la terra di mezzo dell’occhio diventa visione: nervi, muscoli. carne umana. L’atto della visione appartiene alla terra di mezzo. ma la visione è cosa dell’essere. Ecco perché se è vero quanto osservava Joachim Ritter a proposito di quel paradigma dell’esteriore che è il paesaggio — «La natura come paesaggio», e oggi diremmo come immagine, «è frutto dello spirito teoretico» —, l’osservazione esige però di venir conclusa: teoretico è un carattere dell’occhio, ma poco o nulla dice del quanto di ornano riversa entro il corpo l’opzione etico-estetica per un certo sguardo sull’esteriore: quanto «prende corpo» nel colore la gioia che filtra attraverso l’occhio di un Hölderlin e quanto questo fa opposizione allo spirito saturnino del Nord, ovvero l’animato al disanimato, il gravido allo sterile, quanto passano e tracciano i «confini» del corpo il paesaggio slegato, ubriaco, di un Kerouac e quello d’Arcadia, quello panico e teocriteo e quello storico, e quello scientifico?
Oltre le apparenze. che la farebbero dire squisitamente tedesca — «paesaggio vasto,
panoramico e visto dall’alto», scriveva precisamente Savinio per qualificare quel gusto che era durato fino alla pittura di Hans von Thoma —, quella di Dolz è una «visione di natura» fissata in una costante di luce, senza ciclo. senza relazioni naturali, portata alla dimensione ludica dei colori dell’artificio. È questo il luogo dell’essere nostro? Non incarna, il gioco, l’insensata varietà del presente. senza altro fondamento che il piacere, senza perché, senza fino a quando, senza tracce del radicalmente umano? Il terzo occhio che dovrebbe consentire all’uomo l’intelligibilità dell’uomo è una sonda impazzita. o esaurita, che trasmette ormai solo dati su sé stessa? Il suo orizzonte d’osservazione è ormai solo la sua stessa tecnologia: problematica è la tecnologia, il come e non più il dove? Il paesaggio romantico era incontaminato. Onesto paesaggio postmoderno è incontaminabile? Nella grotta del tempo postmoderno immagini «senza corpo»? Ecco, sono caduti molti muri, fisici e ideologici, e ci siamo ritrovati nudi, senza il nostro katarma che esorcizzava il confine da noi, dal nostro essere-apparire; ora esso è tornato al suo luogo naturale. le pareti d’osso del teschio.
Per quanto paradossale e abnorme. Nei lavori di Dolz resiste una simulazione di
spazio per dir così tradizionale e che resta consegnata ai mezzi tradizionali della pittura: un accenno prospettico allucinato, autorifrangente, non precisamente confinabile in un prossimo e un remoto. Una prospettica estrema. ma pur sempre significativa di mi «luogo» che, per quanto dai confini imprevedibili e a un passo dall’«utopia», resta sostanzialmente ancorata al terreno del Novecento. anche se il reticolo dei segni, o delle schegge di colore, crea una saturazione dislessica dello sguardo che trova un analogo, piuttosto che nel terreno della pittura, in quello dell’architettura o del design, magari negli ambienti «architettonici» di un Dan Friedman che si collocavano nel segno dell’espulsione della forma dalla materia (o viceversa, che è lo stesso), in una dilatazione dello spazio oltre la tradizionale frattura interno/esterno, alla conquista dell’unità nella continuità... O magari. su di un altro terreno non visuale, con le Extensions dello statunitense Morton Feldman, con quelle libere successioni di suoni lenti in pianissimo. Non che i dipinti di Dolz abbiano niente di paragonabile alle trascrizioni cromatiche dei suoni praticate per esempio da Kandinskij. Analogo è il suono feldmaniano, principio costruttivo di quelli che ne seguono per via naturale la vibrazione, a questo colore che «si costruisce» suggerendo all’artista un adeguamento puro, cioè non contaminato da prefigurazioni né culturali né meramente visive. Analogo è il ricorso al contrappunto, per stare ancora alla metafora, tra una pasta cromatica forte, intessuta di toni vibranti, e delle forme indicibili eppure non labili, ma squadrate nello spazio, tanto che ci si sente ora l’inquadratura spericolatamente «in diagonale», ora il volo dall’alto o lo sguardo puntato su una forma «primaria» colta nella bellezza del suo affacciarsi alla vita. È quel «colore puro» che Benjamin definiva «lo strumento della fantasia, e non il canone rigido dell’artista che costruisce».
Puro di forma... Ma che cos’è poi la forma della realtà? Sembra che Dolz registri le forme naturali in uno stato di purezza dell’immediato istante post partum, il puro della genesi che è rispecchiato dal loro essere ancora senza nome, vernice fresca congelata in quell’estasi su cui non c’è tempo per il tempo storico., perché una forma della natura non ha luogo né nome che ne sveli il progetto. Così il campo largo, letteralmente, si confonde (o almeno l’equivoco è lasciato sospeso) con i territori minuti, molecolari del colore che non si salda nell’unità di superficie: una «concentrazione» che ha fatto proprie le dimensioni urlate della visibilità postmoderna — lontana anni luce da quella sedimentazione nella storia che in Wols, come in Klee, si esprimeva per esigenza naturale in uno spazio condensato fino al quasi nulla —, e che genera materia per una forma non ancora maturata, chiusa, finita. Non ancora post partum. Impossibilité de peindre, come disse Fréchuret? O pacifica consapevolezza di una doverosa eppure inarrivabile «creazione»? Che la risposta inclini al secondo aut-aut lo si capisce dall’evidenza che i lavori di Dolz germinano da un sentimento del tempo che è mutato nel profondo: il gioco della visione si nutre infatti di una strana prospettiva, non di luogo e nemmeno di tempo, ma di un istante assoluto e autosussistente. L’istante del transito, dell’apparire in luce assume la fisionomia del «luogo» di un’umanità residuale. In pittura tutto si gioca e si giudica nel suo portare in grembo una novità di visione; quando diventa un semplice sismografo degli umori di una società è brutto segno, perché si fa contemplativa, da generativa che era. Ora, queste opere di Dolz, dove tutto fisicamente si salda nell’istante della visione, segnano una tangibile novità precisamente nel ripartorire per gli occhi quell’«espropriazione di luogo» che è la ferita profonda della modernità: opere, queste dell’ultimo biennio, dove forme cromaticamente sature si appropriano della superficie e si sente che quel «corpo» del colore è più forte dell’«apparenza» di una «forma».
È passato mezzo secolo abbondante da quando Günter Anders mise a nudo e battezzò «vergogna prometeica» il sentimento che l’uomo della seconda rivoluzione industriale prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti che lui stesso ha prodotto. Non era un’ardita estrapolazione antropologica, ma l’enunciato di un teorema nel quale è contenuto il profilo di quest’homo prudens del prodotto tecnologico che, come affacciandosi improvvisamente sul baratro, vi aveva scorto il ribaltamento del principio di personalità. Nella società di massa, di massa sono le persone, e persona, profilo individuale, matrice, i suoi prodotti. Potremmo dire, con l’esperienza banalizzante della pubblicità, che è più individuale il coccodrillo Lacoste che strizza l’occhio da milioni di magliette a trilioni di corpi che smaniano di venirne massificati, che non ogni suo singolo indistinto e marchiato portatore. E chiunque abbia memoria di quel vecchio scritto ricorda, come i «fantasmi» delle immagini massmediali vi venivano profeticamente smascherati — cinquant’anni son passati non soltanto come matrici dell’esperienza del mondo, ma quali matrici del mondo stesso: già, «la realtà consiste nella riproduzione delle sue riproduzioni». È naturale e coerente che in un‘epoca di massa, come la nostra», scriveva Pareyson, «il concetto di espressione prevalga su quello di aspirazione, e che si abbia più riguardo alla corrispondenza d’una qualsiasi opera umana alla sua condizione storica che non alla possibilità di giudicarla e discriminarne il valore. Lo storicismo spinto alle estreme conseguenze è la filosofia adeguata a un’epoca di massa». E questo arrogante storicismo oltranzista ha diffuso l’idea che il nostro tempo sia il tempo dell’eclettismo, anche dell’eclettismo artistico: è un’idea insana, ma soprattutto è un’idea debole, dimentica della realtà. Questo è il secolo della grande ferita, dal cui fondo sale quello «strano dolore, pungente, asprigno» che, col Camus de La morte felice, sentiamo «sulla lingua. in fondo al naso e sopra gli occhi». Ma da quel fondo — da quell’underground — sale anche la più tenace «resistenza in vita»: ha l’odore acre che risveglia i sensi, ha la forma elementare della traccia, del segno umorale e fetale o dello stordimento cromatico, nella sua dolorosa leggerezza; ha, di quella vita., l’aspetto di precaria elementarità. Rapporto paradossale, dove memoria non è facoltà della ripetizione, ma della resistenza alla morte della ville lumière dov’è quel che appare. Perché l’oblio non può dissimulare il suo terribile volto, che è svuotamento, o dimenticanza, dell’essere. Di quell’essere che, avvertiva Heidegger, «Viene così radicalmente dimenticato che noi dimentichiamo addirittura questo dimenticare l’essere» e lascia dietro di sé un tempo dove soltanto «l’immobile presente giganteggia».
ANDREA BEOLCHI
Nel catalogo di Opere 1997-1998