Non sempre ciò che è essenziale è anche semplice. C’è, tuttavia, un modo di essere semplici che conduce quasi automaticamente ad essere essenziali: è la cosiddetta «semplicità di cuore», che consiste nel prendere in considerazione le cose senza troppi preamboli e che, evangelicamente intesa, significa affrontare la complessità sapendo dire «sì sì, no no» quando è il caso di dirlo. È con questo spirito di intransigente semplicità che Michele Dolz si è accostato alla pittura, dicendo sì a quella figurativa e no a quella astratta perché, come afferma egli stesso in un suo scritto, «pur nella spirituale bellezza della libertà formale, la pittura astratta non riesce a dialogare a pieno con l’anima di chi guarda, dal momento che ha eliminato l’elemento comune all’artista e all’osservatore, vale a dire la realtà».
Dipingere tenendo conto della realtà non significa, però, per Dolz, abbracciare il genere realistico, ma, piuttosto, andare alla ricerca di quel contenuto essenziale delle cose che ne giustifica l’esistenza su di un piano quantomeno estetico.
Certo, se la si considera solo sul piano formale questa ricerca può sembrarci ben poco innovativa. Se, invece, la si considera nel contesto artistico attuale acquista dei contorni del tutto nuovi, sottolineando un certo dissenso nei confronti delle idee attualmente in voga in pittura. Oggi, infatti, la concezione dell’immagine dipinta oscilla tra due poli specularmente opposti: il realismo più pedissequo, che sostiene sia necessario riprodurre ciò che ci circonda in modo minuzioso ed indiscriminato, emulando, così, la fotografia ed i mass-media, ed il neo-astrattismo, che pretende di sottoporre la realtà ad un’eclissi totale, per lasciar spazio ad un lirismo con finalità visibilmente decorative. Per Dolz la realtà non va ne esasperata ne trascurata, ma, semmai, sottoposta ad un processo di trasfigurazione che permetta di coglierne la dimensione interiore, il riverbero che essa produce nell’animo di chi la osserva. A sancire questo primato dell’interiorità è, da un punto di fatto di vista tecnico, l’utilizzo di un cromatismo intenso, debordante e quasi sempre soggettivo, che non tende, cioè, a descrivere effettivamente gli oggetti ma, piuttosto, i sentimenti che essi suscitano nell’artista. Dolz sa bene che facendo sua questa equivalenza tra colore e sentimento si pone nel solco di maestri riconosciuti e, secondo alcuni, ormai superati delle avanguardie storiche, Matisse in testa. Ciò che, tuttavia, ricollega la sua pittura al clima culturale dei primi anni del novecento e la rende, a mio avviso, positivamente inattuale non è tanto l’impostazione formale o la concezione estetica, quanto piuttosto la ricerca di una dimensione spirituale dell’arte che è condivisa da ben pochi «maestri», o presunti tali, delle avanguardie di oggi. In quegli anni, infatti, anche un artista laico come Matisse non poteva non porsi il quesito su che cosa potesse significare un’espressione come «pittura religiosa», dandosi poi questa risposta (che Dolz non potrebbe che condividere): «dipingere la realtà con spirito religioso significa accostarsi ad essa con uno spirito semplice ed essenziale, sapendo che ogni particolare di essa è straordinariamente importante».
Roberto Borghi