Quando li vedi tutti in torno ti senti in un mondo di gente diversa, come quegli universi che grandi scrittori hanno creato e che, pur bizzarri, sono tanto coerenti e umani da permetterti di dialogare, prevedere, gioire e penare con i loro abitanti. Questi di El Greco sono uomini lunghi, fatti di materia sfuggente, perennemente rapiti in deliri d’amore.
Da vicino sono fatti di pennellate magnifiche, di colore tirato, sfregato a volte, posto in corpose tracce di pasta altre, il tutto in una disposizione anarchica eppure rigorosa. Due passi indietro per apprezzare l’inquadratura da sotto in su, a creare un ritmo ascendente come le cattedrali gotiche. Per poi scoprire il ritmo discendente, di Dio che si cala in questa terra. Ogni dove s’insinuano le nuvole semisolide, gonfiabili, anatomiche, di un’assurdità tutta coerente. E tra nuvole, luci celesti, aspirazioni terrene, s’intrecciano gambe, braccia, angeli, spade, drappi, in composizioni arroventate, strutturate dai segni neri, più che contorni autentiche ragnatele conformanti.
Siamo in quelle che Eugenio d’Ors chiamava «ardenti regioni dove la pittura, agitata da una febbrile ambizione di esprimere, è sul punto di volatilizzare la sua materia per trasformarsi in musica o in poesia, in lirismo e carattere».
Mi sono fermato davanti alla Crocifissione, catturato da un particolare delirante, insania amorosa di una Maddalena e un angelo che puliscono con un panno la croce sotto i piedi di Gesù, raccolgono il sangue redentore, tentano di cancellare l’indecenza di quell’obbrobrio, l’annichilimento del loro Signore. Quale teologia può dirlo? Quale fraticello predicatore l’avrà mai gridato dal pulpito? No, questa è l’anima di El Greco pittore contagiata dall’ardore contemplativo toledano, o può darsi l’anima di qualche religiosa che gli abbia voluto confidare la più intime scosse della propria anima.
Dal vecchio retablo toledano di Santo Domingo el Antiguo, arriva al Prado una delle sue opere assolute: La Trinidad. Qui supera se stesso e porta la pittura religiosa a vette neanche immaginate. Grande tela altra tre metri, Dio Padre regge tra le braccia il corpo esanime del Figlio piegato in una Z dolente, abbandonata, invereconda di puro amore fin oltre la morte. Sopra i due, la colomba dello Spirito Santo in un boato di luce giallo di cadmio. Sotto, la nuvola di zucchero filato. E intorno alle tre Persone, una mezza luna di giovanotti angeli muscolosi e affranti dal tremendo mistero salvifico. Insomma, il cielo piange il sacrificio del Figlio di Dio. È successo qualcosa di formidabile, divinamente terribile e definitivo. Eppure, che eleganza nel gruppo in volo. C’è a sinistra un angelo col mantello verde, ripreso di spalle, con due gambe che spuntano belle ma sproporzionatamente corte. E i piedi sporchi. E il copricapo del Padreterno? Due corna senza senno né appoggio. E poi, sotto al mantello giallo-ocra dorata gli spuntano delle testoline di putti che vogliono vedere più da vicino.
Questo è El Greco maturo, ben accomodato e considerato nella mistica Spagna tra Cinque e Seicento. Maturo come pittore inclassificabile (invano si tenta di ascriverlo a un generico manierismo) ma anche come interprete visivo della nuova fede cattolica che gli bruciava dento.
Ed è proprio tanta singolarità a sollevare domande. Da dove viene fuori un tale veggente? Chi l’ha plasmato? Dove ha trovato i suoi attrezzi? Alcune risposte le offre una minuta ma sostanziosa mostra a Treviso dal titolo El Greco in Italia. Metamorfosi di un genio, a cura di Lionello Puppi. Al suo saggio nel catalogo Skira rimando per importanti notizie documentarie e di analisi.
Dominikos Theotokopoulos raggiunse Venezia nel 1567. Aveva 26 anni e proveniva dall’isola di Creta, allora dominio della Serenissima. Era iconografo. La mostra vuole il confronto con alcuni suoi colleghi perché non ci sfugga il suo tocco nervoso, quel sostanziare il colore con materia e vibrazione. Non si sa molto, è vero, del periodo veneziano, ma Puppi ha superato certi stereotipi e ragionatamente propone Tiziano, Tintoretto e Jacopo Bassano come i principali artisti cui il giovane ha guardato. E dall’accostamento appare convincente.
Primizia del lavoro veneziano, è il lacrimevole Altarolo per un Miles Christi (1567-1568), piccolo trittico di devozione ispirato al Miles Christi di Erasmo. Conservato ora nella Galleria Estense di Modena, fu ritrovato e pubblicata da Rodolfo Pallucchini solo nel 1937, ed è opera chiave nell’attività de El Greco in Italia, punto irreversibile nella scelta della maniera moderna e l’abbandono della cosa bizantina. Se di abbandono si può parlare, perché della fisicità dell’icona, delle forzate luminiscenze, dei volti allucinati, rimarrà sempre l’impronta. Nell’altarolo c’è quello che El Greco sarà: il moto perpetuo, gli sguardi ebeti e incongrui, quell’assurdo monte Sinai che t anticipa la spettralità dei paesaggi toledani. Rimangono le gradazioni dorate dell’icona, da purificare.
Nel 1570 Deminikos si trasferisce a Roma e, raccomandato da Giorgio Giulio Clovio, si sistema dai Farnesi. Alla maniera educata a Venezia, Roma aggiunge la classicità, il gusto della figura. In mostra, tra gli altri dipinti, la famosa Guarigione del cieco (1573-1574) della Galleria Nazionale di Parma. Sullo sfondo si vedono le terme di Diocleziano e tra i personaggi i ritratti di Alessandro Farnese junior e Juan de Austria, recenti eroi di Lepanto, celebrità dell’ambiente romano tridentino. Ma soprattutto, romana è la calma antica della scena. Sembra quasi un altro artista.
Sembra. Perché basta guardare i crocefissi, che sono un gioiello di questa rassegna. In particolare un piccolo Cristo morto in croce, databile al 1573-1574, proveniente da collezione privata e per la prima volta esposto in Italia, si rifà esplicitamente alla lezione di quel vecchio, devoto Michelangelo, membro attivo del circolo spirituale di Vittoria Colonna. L’icastica solennità e solitudine redentiva del crocefisso michelangiolesco, ripreso poi dal Venusti, è travasata in questi Cristi oblunghi di El Greco. Che sono tutti italiani, di molto precedenti ai crocefissi incommensurabili di Velázquez e Zurbarán.
In Spagna El Greco si trasferì nel 1577, dopo dieci anni di abluzione italica. Ma ci arrivò con una poetica già elaborata. Gli ultimi dipinti italiani esposti la dichiarano a sufficienza. Como pure il piccolissimo San Francesco (22,2 x 16,7 cm), del 1576-1577 e proveniente pure da collezione privata, sinora inedito al pubblico italiano.
Michele Dolz
Studi Cattolici 659, gennaio 2016