Si è inaugurata oggi allo Spazio Ostrakon di Milano la mostra di Michele Dolz intitolata Creatures, con presentazione e a cura di Giorgio Seveso. «Le creature evocate da Dolz», scrive Seveso, «sono tori e pesci, meduse e uccelli, polipi , gusci, conchiglie e altro, tra muffe e fioriture di patine, tra licheni minerali e colature magmatiche venute a spalmarsi su spazi senza luogo né tempo. Tracce di una vita brulicante eppure congelata in una teca d’arcaico e immobile silenzio, “ritratti” interiori d’improbabili protagonisti come spiati da una fessura aperta nel conglomerato delle ere geologiche […]. I colori sono opachi e freddi, e rimandano all’orizzonte desolato di un deserto di inaudite solitudini, mentre il corpo fisico degli animali e degli oggetti si consuma di una ruggine inquieta. L’unica luce di queste creature, di questi reperti sospesi, è il loro lirismo travolgente, l’irresistibile densità di muta poesia che è loro propria».
Michele Dolz è nato in Spagna nel 1954 e si è trasferito in Italia nel 1976. Vive e lavora a Milano, ma è docente di Storia dell’Arte nella Università della Santa Croce a Roma. Come artista ha percorso una carriera fitta di esposizioni e di critica importante. E, cosa singolare nel panorama artistico, è un prete.
Come ha avviato la sua pittura e quali sono i caratteri della sua poiesis ?
Non ricordo un «avvio» della mia pittura: è cresciuta con me. Anni fa mi sono accorto che la tavolozza si andava oscurando e le forme semplificando. Ho capito che, qualunque fosse il soggetto, era sempre metafora dell’animo umano. In una mostra dal titolo Notte oscura (allusione neanche tanto velata a san Giovanni della Croce) tutto questo venne fuori finalmente.
Influisce in questo il fatto che lei sia sacerdote?
Immagino di sì. Credo che un sacerdote sia tale in ogni sua azione e non solo in quelle a scopo pastorale o liturgico. Certo, 33 anni di ministero mi hanno permesso di conoscere il cuore dell’uomo. Ma la mia non per nulla una pittura religiosa né apologetica. Ho toccato raramente il tema sacro.
In effetti, queste sue «Creatures» sono, o almeno sembrano, ben lontane. Come nascono, che cosa significano?
Mi attirano molto gli animali primitivi, ancestrali per così dire. I fossili, per esempio.
Qui ho immaginato delle creature più o meno attinenti ad animali noti. Volevo che suggerissero una vita molto antica, anche sofferta, come se portassero addosso il peso del loro mondo.
Mi ha colpito un dipinto di George Stubbs, un pittore inglese del Settecento che ritraeva animali, cavalli principalmente. Dipinse una zebra, animale esotico allora, disegnata di profilo e ambientata in un boschetto misterioso. Sagomati di profilo sono tutti gli animali delle tavole zoologiche. Così anche queste creature.
Ma ancora una volta questa è in realtà una ricerca nell’animo umano. Siamo tra gli esseri più recenti del pianeta, eppure sentiamo il peso di tutto il creato, come se un qualcosa molto più vecchio di noi e del mondo stesso ci avesse coinvolto.
«Il pesce non sfugge» è una sua opera recente, ora nella Quadreria Arcivescovile di Milano. Ce ne può parlare?
È tra le poche opere a tema sacro. Ho detto altre volte che non mi sento di avere il talento per fare un’opera sacra che regga il confronto con tanti maestri antichi, anche minori, che hanno riempito le nostre chiese. Non per lo stile né per la tecnica, ma per la qualità. Allora ho seguito il «consiglio» di Clemente Alessandrino: dipingiamo simboli. E ho rifatto il catalogo dei simboli paleocristiani, dal pavone al pane.
Una volta meditavo su un testo di sant’Ambrogio, un commento alla pesca miracolosa. Il vangelo dice che avevano preso una tale quantità di pesci che le reti si rompevano. E Ambrogio, in uno dei quei suoi incisi geniali, annota: le reti si rompono ma il pesce non sfugge. Allora dipinsi un Chi-rho cerchiato all’interno del quale nuotano due grossi pesci fatti con la mia materia grumosa un po’ informale. Tutto qua.
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